sabato 25 maggio 2019

Aspettando Papa Francesco a Csíksomlyó – breve storia dei cattolici ungheresi


Pubblichiamo la sintesi della prima parte della presentazione “Cattolici Ungheresi: 1000 anni in Transilvania – 100 anni in Romania”, tenuta l’8 maggio scorso presso l’Accademia d’Ungheria a Roma dal Prof. Zsolt Tamási, Direttore del Liceo Cattolico “II. Rákóczi Ferenc” di Targu Mures/Marosvásárhely sulla storia dei cattolici ungheresi della Transilvania. Una storia che presenta non solo tanti momenti di sofferenza e di delusione, ma anche dei tratti peculiari, come il ruolo dei laici nella pastorale e nella gestione dei beni della Chiesa, a partire dal XVII secolo.


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La Transilvania è una regione che da cento anni appartiene alla Romania, e dove i cattolici ungheresi sono stati plasmati da ben mille di storia, quando hanno dovuto imparare a resistere e a ricominciare.
La diocesi cattolica di rito latino della Transilvania fu fondata nel 1009 da Santo Stefano re d’Ungheria. Facendo parte del Regno d’Ungheria, essa fu per secoli l’ultima diocesi latina verso oriente. Ha dovuto spesso subire le incursioni di diversi popoli nomadi orientali, poi quelle dei turchi che ne hanno decimato la popolazione. Guardiani di questi confini orientali dell’Ungheria e, insieme, della Chiesa Cattolica, furono i székely, o siculi, una popolazione di guerrieri ungheresi che tuttora vive compatta in quelle regioni, oggi come una isola ungherese e cattolica al centro della Romania ortodossa.
Le diocesi del Regno d'Ungheria nel XI secolo
Lo sviluppo medievale venne interrotto prima dall’invasione mongola (i tartari), nel 1241, poi, nel XVI secolo, dall’espansionismo turco che soggiogò la parte centrale del Regno d’Ungheria. La Transilvania, divenuta Principato autonomo, dovette trovare un equilibrio precario tra l’Impero Asburgico e l’Impero Ottomano.
Nel periodo della Riforma, quando praticamente tutta la regione divenne protestante, solo i székely (siculi) si mantennero fedeli al cattolicesimo, grazie alla protezione della Vergine di Csíksomlyó. I székely, infatti, si difesero a mano armata contro i tentativi di conversione forzata: proprio questo fatto è all’origine del pellegrinaggio e del “Perdono di Pentecoste” presso il Santuario di Csíksomlyó.
La Transilvania - dettaglio di un affresco del XVI secolo
nel Palazzo Apostolico in Vaticano
Essendo il Principato di Transilvania a dominanza protestante, ai cattolici fu impedito di avere un vescovo proprio e la Diocesi della Transilvania venne amministrata da vicari episcopali. Gli ordini religiosi espulsi, i loro conventi distrutti nelle guerre, solo alcuni dei conventi francescani rimasero operativi, tra i quali quello di Csíksomlyó. La carenza di sacerdoti portò alla diffusione di una istituzione particolare, i cd. “licenziati”, ossia degli uomini laici che con la licenza del vescovo svolgevano tutte le funzioni pastorali che non richiedevano l’ordine sacro.
In assenza dell’ordinario tanti beni della diocesi vennero usati dallo stato. A tutela dei diritti e dei beni della Chiesa ci pensarono allora le famiglie aristocratiche rimaste cattoliche. All’inizio del XVII secolo fondarono il cd. “Status Romano-Catholicus Transylvaniensis”, un peculiare organo di autogoverno che riuniva dei rappresentanti ecclesiali e laici, cui spettava di amministrare i beni ecclesiali.
Dopo la riconquista e l’avvento della dominazione asburgica anche il vescovo poté far ritorno in Transilvania. Il cattolicesimo, con gli ordini religiosi e le istituzioni caritative e scolastiche, poté finalmente riorganizzarsi. Nel XVIII secolo, volendo fuggire alle pressioni centralizzatrici degli Asburgo, che ne tolsero gran parte dell’antica autonomia, tanti székely emigrarono nella vicina Moldavia, dando vita ad una folta comunità di csángó di religione romano cattolica e di lingua ungherese.
Lo smembramento dell’Ungheria, alla fine della Prima Guerra Mondiale, vide la Transilvania e diverse contee dell’Ungheria orientale, assegnate alla Romania. Quest’ultima avviò una politica di centralizzazione, a discapito delle differenze regionali esistenti, limitando le possibilità delle minoranze nazionali non ortodosse.

Cattedrale di S. Michele di Alba Iulia/Gyulafehérvár (foto: Diocesi di Alba Iulia)
Gli ungheresi della Grande Romania appartenevano originalmente a quattro diocesi di rito latino. La Diocesi di Transilvania venne ribattezzata Diocesi di Alba Iulia/Gyulafehérvár. Le diocesi di Oradea/Nagyvárad (Gran Varadino nelle antiche fonti italiane), di Satu Mare/Szatmár e di Timisoara/Temesvár (quest’ultima in origine si chiamava Csanád, fondata nel 1030 da S. Gerardo Sagredo) furono anch’esse smembrate dalle nuove frontiere, con le sedi rimaste in Romania.
Viste le difficoltà che la Chiesa romano cattolica dovette affrontare, la Santa Sede concluse un Concordato con il Regno di Romania nel 1927, integrato nel 1932 da un Accordo interpretativo. Con ciò il cattolicesimo latino continuò ad essere almeno tollerato in Romania, anche se perse gran parte dei possedimenti agricoli (base del sostentamento delle proprie istituzioni). Le diocesi di lingua ungherese divennero suffraganee della ben più piccola Arcidiocesi di Bucarest, cui gli accordi assegnarono dei poteri di supervisione sui beni ecclesiastici. Lo Status Romano-Catholicus Transylvaniensis, che gestiva i vari fondi di sostentamento delle istituzioni cattoliche, come pure le scuole, venne trasformata (non abolita) in Consiglio Diocesano, ai sensi dei Canoni 1520-1521 del Codex Juris Canonici (del 1917), riconoscendo esplicitamente che i beni dello Status erano beni ecclesiastici.
L'Accordo di Roma tra la S. Sede e la Romania
sullo "Status Romano-Catholicus Transylvaniensis"
La Seconda Guerra Mondiale e l’avvento del comunismo anche in Romania segnò un’epoca difficilissima per la Chiesa latina. I vescovi Szilárd Bogdánffy di Oradea/Nagyvárad e János Scheffler di Satu Mare/Szatmár subirono il martirio nelle prigioni comuniste per la loro fedeltà al Successore di Pietro. Anche il vescovo di Alba Iulia/Gyulafehérvár, Áron Márton (1938-1980) subì il carcere e il confino, però si mantenne inflessibile alle pressioni statali e saldo nella fede. La sua perseveranza, fedeltà a Roma e alla propria nazione ungherese, il suo esempio di vita di pastore confermarono nella fede i cattolici ungheresi della Transilvania che ogni giorno pregano per la sua beatificazione.
Il Servo di Dio Áron Márton
in Transilvania tuttora è chiamato "Il Vescovo"
 
Con la fine del comunismo i cattolici ungheresi della Transilvania sperarono nell’avvento della democrazia e dello stato di diritto che li tutelasse dalle oppressioni, divieti e marginalizzazioni. Vi fu la speranza che non fosse più ostacolata l’identità ungherese e romano cattolica, vissuta nelle rinate istituzioni. Eppure, tante speranze furono deluse dallo Stato come se avesse da temere dalle proprie minoranze.
Ripresero i pellegrinaggi a Csíksomlyó che ben presto divenne il Santuario più frequentato dagli ungheresi di tutto il mondo e simbolo della sopravvivenza tra le avversità. Le Diocesi di Oradea/Nagyvárad e Satu Mare/Szatmár vennero reintegrate, ciascuna con un proprio ordinario. Nel 1991 Alba Iulia/Gyulafehérvár venne eretta al rango di Arcidiocesi, senza però assegnargli (come invece sarebbe stata ragionevole dal punto di vista pastorale) le altre tre diocesi di lingua ungherese che rimasero così suffraganee di Bucarest.
Nel 1999 il viaggio apostolico di San Giovanni Paolo II, per una serie di ragioni, dovette limitarsi alla sola Bucarest, lasciando delle ferite, tuttora sentite, nell’animo dei fedeli cattolici della Transilvania.
Presentazione tenuta dal Prof. Zsolt Tamási (a destra),
in presenza di Fra' Csaba Böjte (centro) e l'Amb. Habsburg-Lothringen (sinistra)

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