Pubblichiamo il testo integrale della prolusione di Mons. Daniel E. Estivill,
docente di Iconografia e Iconologia della Pontificia Università Gregoriana,
pronunciata all’inaugurazione della mostra “Lux in
tenebris lucet – La rinascita del chiaroscuro spirituale” di Ádám Kisléghi
Nagy presso l’Accademia d’Ungheria in Roma.
Inaugurazione della mostra di Kisléghi Nagy all'Accademia d'Ungheria (17 marzo 2016) con Mons. Estivill, Amb. Habsburg-Lothringen, Prof. Molnár e Ádám Kisléghi Nagy |
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«La luce splende nelle tenebre»: con questa citazione del Prologo
del Vangelo di San Giovanni (Gv 1, 5)
si apre questa mostra quale degno preludio alla Settimana Santa ormai alle
porte. Il sottotitolo – la rinascita del
chiaroscuro spirituale – è anche altamente significativo, in quanto esprime
in modo conciso uno dei tratti più rilevanti della produzione artistica di Ádám
Kisléghi, ovverosia, quella tecnica pittorica che in lui diventa espressione
visiva di un percorso personale di fede.
La tematica proposta
dalla mostra, da una parte, accenna alla rinascita del glorioso passato della
tradizione artistica occidentale, caratterizzata da un continuo evolversi alla
ricerca di forme stilistiche in armonia con le movenze culturali contemporanee.
Dall’altra parte, il chiaroscuro diventa l’angolazione specifica secondo la
quale siamo invitati a contemplare le opere esposte. Sembra, dunque, più che
opportuno soffermarsi su questa tecnica pittorica, ben visibile nella ricca
varietà di soggetti iconografici che compongono la mostra.
La tecnica del
chiaroscuro, così come viene adoperata da Kisleghi, rivela, tra l’altro, la sua
vicinanza a Michelangelo Merisi da Caravaggio. Vicinanza che non è mera
imitazione di una maniera di dipingere, bensì una vera esplorazione alla
ricerca di emozioni visive e spirituali del più alto livello.
Come è ben noto, il primo
scopo di questo modo di dipingere è rendere la raffigurazione della realtà
estremamente veritiera. Così il Merisi, con il suo dipingere in chiave di
chiaroscuro, non fece altro che mettersi al servizio dei principi dell’arte
tridentina. Infatti, il Card. Gabriele Paleotti suggeriva al pittore di
attirare gli occhi dell’osservatore ad ammirare il dipinto «con la vaghezza
e la varietà dei colori, ora chiari ora
scuri, ora delicati ora forti, a seconda della natura del soggetto» (Discorso intorno alle immagini sacre e
profane, Libro II, cap. LII).
In questo modo
Caravaggio è riuscito ad inserirsi nella più nobile tradizione della
spiritualità cristiana, che ha avuto molteplici moduli espressivi nella storia
dell’iconografia sacra, ma in lui divenne un peculiare leitmotiv
figurativo, nel quale la luce del divino entra nella quotidianità della fede
vissuta.
Kisléghi Nagy: Deposizione dalla croce (www.kisleghi.com) |
Orbene, sulla scia di
questo grande pittore, Kisléghi ha voluto studiare in ogni personaggio le ombre
proprie e quelle proiettate con una doppia finalità: dare realismo alla
raffigurazione ed usare la luce come elemento simbolico del mondo spirituale.
In questo, egli rivela la sua conoscenza della feconda tradizione spirituale
della Chiesa, nella quale la luce è sempre segno dell’essenza del divino, della
bontà di ogni cosa e dell’ausilio della grazia. Invece l’oscurità è simbolo del
peccato, dell’assenza del bene e del luogo dove si nasconde lo spirito del male.
In effetti, già nelle prime pagine della Sacra Scrittura, il racconto della
creazione allude alla primordiale separazione della luce dalle tenebre (cf. Gn
1, 3-4). Poi, nella pienezza dei tempi, l’incarnazione del Verbo divino viene presentata
come luce che splende nelle tenebre
(cf. Gv 1,5) e illumina la storia
degli uomini (cf. Gv 8,12). A questi dati della rivelazione segue una
costante e prolifica predicazione della Chiesa lungo i secoli, secondo la quale
il trionfo del bene sul male, della vita sulla morte, è presentato visivamente come
passaggio dalle tenebre alla luce. Basti solo ricordare la liturgia pasquale
che la Chiesa celebra contemplando il Cristo risorto. Egli, vincitore della
morte e Signore della luce, è rappresentato nella vigilia del Sabato Santo dal Cero
pasquale, che il celebrante accende mentre pronuncia le note parole: «Lumen Christi glorióse resurgéntis díssipet
ténebras cordis et mentis» (La luce del Cristo che risorge glorioso disperda
le tenebre del cuore e dello spirito).
Kisléghi Nagy: San Girolamo (www.kisleghi.com) |
Secondo questa visione,
nelle composizioni di Ádám Kisleghi la luce, benché concepita con estremo
realismo, gioca un ruolo decisivo all’ora di una lettura spirituale dell’opera.
In essa il contrasto tra le ombre e le luci può essere facilmente percepito
come simbolo dell’esistenza umana che, nella penombra della sua condizione
itinerante, viene illuminata dalla grazia che la trasfigura.
Kisléghi Nagy: San Francesco (www.kisleghi.com) |
Mi sia ora permesso
attirare l’attenzione, nonché vostra la curiosità, su alcune opere qui esposte
dove Kisleghi è egregiamente riuscito ad esprimere con il suo pennello ciò che
poveramente io sto cercando di comunicare a parole. Ad esempio, nel San Francesco è evidente che la luce, proveniente
dall’alto, diventa simbolo di quell’illuminazione interiore che apre l’anima
del santo alla speranza durante la meditazione sulla morte. Analogamente nel San Girolamo la luce, collocata al di
fuori del quadro compositivo, si diffonde in modo radente sul corpo del santo, dall’alto
verso il basso, quasi ad indicare la fonte dell’ispirazione della Parola di Dio,
che lo scrittore si accinge a trascrivere. Anche nelle grandi tele, come il
ciclo pittorico della Cattedrale di Szombathely, i cui bozzetti sono qui
esposti, è possibile apprezzare il gioco di luci e ombre nel quale esprime il
mistero cristologico della redenzione nei suoi momenti culminanti: l’Annunziazione a Maria, l’Adorazione dei Pastori, la Deposizione dalla croce e la Pentecoste. E così via, nelle diverse
opere esposte è possibile scoprire come il chiaroscuro diventa manifestazione
della sacralità dei soggetti iconografici.
Kisléghi Nagy: Annunciazione (www.kisleghi.com) |
Scriveva il Card. F.
Borromeo, a proposito della devozione di colui che dipinge opere d’arte sacra: «...come
riesce vano lo sforzo dell’oratore per commuovere gli animi se prima non
sarà lui stesso commosso, così io penso che ai pittori avvenga alcunché di
simile, di modo che se essi stessi prima non si saranno sforzati di eccitare
nel proprio animo i sentimenti, non potranno comunicare nelle loro opere ciò
che essi non sentano, cioè la pietà e i nobili sentimenti dell’animo» (Borromeo F., De pittura sacra, Libro
I, cap. XI). Se ciò è vero, non possiamo non intuire che l’opera di Ádám
Kisleghi sia il frutto, non solo di una conoscenza profonda delle regole dell’arte
della pittura e di una solida formazione nella dottrina cristiana, ma
soprattutto di una devozione personale, che riesce a coinvolgere l’osservatore
invitandolo all’atto di fede e alla lode divina.
Daniel
E. EstivillKisléghi Nagy: Pentecoste (www.kisleghi.com) |
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