Riportiamo il testo dell’articolo dell’Ambasciatore d’Ungheria sulla figura
di János Esterházy, pubblicato su L’Osservatore Romano il 5 aprile 2017, in
occasione del sessantesimo anniversario della morte.
* * *
La testimonianza di János Esterházy
Promotore della fratellanza tra le nazioni
di EDUARD HABSBURG-LOTHARINGIAI
“Tutto va bene come il buon Dio lo
vuole. Se Egli ha pensato che sia bene così, allora va bene anche per me. Chi
sono io per obiettare al volere di Dio?” Con tale animo il conte János
Esterházy affrontò le sofferenze dei lavori forzati e della prigione. Un vero e
proprio calvario che giunse a termine proprio sessant’anni fa nella
fortezza-prigione di Mírov, in Cecoslovacchia. La sua figura riassume in
qualche modo il dramma che nel ventesimo secolo toccò ai popoli dell’Europa centrale.
Discendente di due delle famiglie
aristocratiche più importanti dell’Ungheria e della Polonia, nacque nel
territorio dell’odierna Slovacchia e le sue ceneri ora riposano a Praga. Difese
i diritti della sua comunità, aiutò i perseguitati durante la seconda guerra
mondiale, contrastò sia il nazismo che il comunismo e dovette subire i lavori
forzati nei gulag sovietici e il carcere nella Cecoslovacchia comunista.
Soprattutto, però, è stato un uomo dalla profonda fede cattolica e un promotore
convinto della fratellanza tra le nazioni.
Nato ai tempi della monarchia
austro-ungarica, a Nyitraújlak (oggi Velké Zaluzie in Slovacchia), il 14 marzo
1901, il conte János Esterházy perse il padre da giovanissimo e fu cresciuto
dalla madre polacca, Elzbieta Tarnowska, assieme alle sorelle Lujza e Mária. Negli
anni trenta scelse di entrare in politica per rappresentare la comunità degli
ungheresi della Cecoslovacchia. Fu presidente del Partito cristiano sociale,
ispirato dai principi della Rerum novarum,
e deputato al parlamento di Praga e poi a quella di Bratislava. Guidato dalla
sua fede cristiana e dalla convinzione circa la necessità di una
riconciliazione tra cechi, slovacchi e ungheresi, il suo obiettivo politico fu
quello della realizzazione di quanto i trattati di pace di Versailles
assicuravano alle minoranze nazionali dei vari paesi. Fu così che si batté non
solo per gli ungheresi della Cecoslovacchia ma anche per gli slovacchi
dell’Ungheria. Karl Schwarzenberg, già ministro degli Affari esteri della
Repubblica Ceca lo volle perciò ricordare come “uno dei politici più onesti
dell’Europa centrale”.
Durante la seconda guerra mondiale facilitò la fuga dalla Polonia occupata dai tedeschi di tante personalità politiche e di molti ebrei che poterono trovare rifugio in Ungheria o proseguire verso i paesi occidentali. Altrettanto fece quando a dover fuggire furono i politici cecoslovacchi e poi si prodigò per salvare gli ebrei della Slovacchia.
Statua di János Esterházy a Budapest - lo ritrae prigioniero al Gulag, con le stazioni della sua prigionia iscritte sul monumento (opera di János Nagy) |
Nelle ultime settimane
dell’occupazione tedesca fu braccato dalla Gestapo e dovette nascondersi a
Bratislava. Subito dopo la guerra volle incontrare il commissario per gli
Interni della Cecoslovacchia, il comunista Gustáv Husák, per parlare della
causa della comunità ungherese. Husák però lo fece arrestare, con l’accusa di
essere stato nazista e lo consegnò ai sovietici. Deportato nell’Unione
Sovietica, nella temutissima prigione della Lubianka di Mosca, fu condannato in
un processo farsa, dopo indicibili torture, a dieci anni di lavori forzati.
Prigioniero nei vari campi del Gulag siberiano si ammalò gravemente. Nel
frattempo fu condannato a morte come criminale di guerra nazista dal tribunale
nazionale slovacco di Bratislava. I sovietici lo riconsegnarono alle autorità
cecoslovacche nel 1949 perché la sentenza capitale fosse eseguita. Per
l’intervento di diverse personalità (tanti, infatti, conoscevano la verità) gli
venne concessa la “grazia” dell’ergastolo.
Curato per alcune settimane
nell’ospedale di Bratislava, Esterházy avrebbe avuto modo di fuggire, ma egli
rifiutò l’aiuto offertogli dicendo di avere la coscienza pulita e di non voler
abbandonare la sua patria e la sua comunità. Iniziò così la seconda parte della
sua vera e propria via crucis nelle diverse prigioni della Cecoslovacchia che
egli accettò come espiazione per la sua comunità. “Sai – disse alla sorella –
avevo sempre pregato per poter tornare qui, dove almeno potessi assistere alla
messa, e questo mi è stato già concesso.”
La sua famiglia nel frattempo si
disperse nel mondo: la moglie e i due bambini fuggirono in Ungheria, dove
vennero internati dai comunisti a causa della loro origine aristocratica. I
figli poi riuscirono ad emigrare in occidente. Sua madre e la sorella maggiore,
Lujza Esterházy, anch’ella impegnata nel movimento cristiano sociale,
emigrarono in Francia. Solo la sorella minore, Mária (essendo anche cittadina
polacca per via del marito e così più protetta) poté rimanergli vicino, anche a
costo di immense difficoltà, per poter assisterlo con le rare visite concesse e
per tentare continuamente di ottenere la grazia per lui. Proprio dai diari e
dalle lettere di lei riusciamo a conoscere alcuni aspetti del vero e proprio
martirio di János Esterházy, testimonianza sostenuta anche dai resoconti di
alcuni dei suoi compagni di prigione, sia in Siberia che in Cecoslovacchia (è
menzionato persino da Alexandr Solzenicyn nel romanzo Il primo cerchio).
Dalle testimonianze emerge come
Esterházy affrontasse la prigione con lo stesso spirito di servizio che prima
animava il suo impegno politico. Abbandonatosi del tutto al volere della divina
provvidenza offrì le proprie sofferenze per la sua famiglia e per la sua
comunità più larga. “La sua fede nella grazia divina risultò più forte di ogni
odio e rancore nei confronti di quanti gli avevano causato tante e terribili
sofferenze”, ebbe a scrivere di lui Dagmar Babčanová, già ambasciatrice
della Slovacchia presso la Santa Sede.
Nell’ambiente disumano delle carceri
egli, infatti, mantenne la serenità, nonostante la malattia gravissima ai
polmoni e la situazione umanamente priva di ogni speranza. Riuscì, anzi, a infondere
speranza nei propri compagni e, addirittura, ad approfondire la loro fede,
praticando delle piccole opere di carità in mezzo a tutte le privazioni. Fu in
tutto ciò sostenuto dalla preghiera costante e dal “cibo più importante”, come
lo descriveva in codice nelle rare lettere alla sorella, ossia dall’eucaristia.
L’ostia consacrata gli veniva, all’inizio, spedita dalla sorella, nascosta fra
i biscotti. In alcune prigioni, invece, ebbe l’occasione di assistere alle
messe “clandestine” celebrate dai sacerdoti, prigionieri anch’essi della
dittatura comunista.
János Esterházy spirò, dopo anni di
sofferenze, la mattina dell’8 marzo 1957, nella prigione di Mírov, assistito da
Vasil Hopko, vescovo martire greco-cattolico di Presov, beatificato nel 2003.
La sorella Mária chiese invano alle autorità l’estradizione della sua salma per
poterla seppellire nella sua terra. Vollero che Esterházy rimanesse in prigione
anche da morto.
Dopo la caduta del comunismo è stata
la figlia, Alice Esterházy-Malfatti, residente in Italia, a sollecitare il
processo di riabilitazione del padre martire, e a promuovere eroicamente la
diffusione di una conoscenza reale della sua figura, per cancellare le calunnie
che gli furono mosse. Nel 1993 la Russia riabilitò Esterházy, riconoscendogli
di essere stato vittima di un processo politico. Nel 2009 la Polonia gli conferì
l’onorificenza della “Polonia Restituta” per il suo aiuto ai polacchi durante
la guerra. Nel 2011 la Anti-Defamation League lo volle onorare con il Jan Karski Courage to Care Award per aver salvato la vita a tanti ebrei.
Lapide sulla casa dove János Esterházy abitava a Budapest |
L’ultimo desiderio di János
Esterházy di essere sepolto nella sua terra rimane tuttora inesaudito. Infatti,
solo nel 2007 è stato possibile accertare che l’urna con le sue ceneri è stata
deposta nel cimitero dell’ex prigione di Motol, a Praga, oggi memoriale delle
vittime del comunismo. Una lapide lo ricorda a Motol, un’altra a Mírov, così
come molti altri monumenti sia in Slovacchia che in Ungheria. Sempre più
persone sono convinte che Esterházy sia non solo vittima di un’epoca ingiusta,
ma anche martire della riconciliazione tra i popoli centro-europei.
Sin dalla sua morte, inoltre, è viva
la fama di santità di János Esterházy. Lo sostenevano non solo i familiari e i
conoscenti ma, prima di tutto, i suoi compagni di prigionia. Pochi mesi dopo la
sua morte, un sacerdote, che non lo conosceva e al quale era stato chiesto di offrire
regolarmente la messa in suo suffragio, dichiarò ai parenti: “Non so chi sia
stata questa persona ma quando celebro la messa per lui mi viene ogni volta
l’ispirazione di commemorarlo non tra i defunti ma tra i santi”.
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