venerdì 14 luglio 2017

János Esterházy - Promotore della fratellanza tra le nazioni


Riportiamo il testo dell’articolo dell’Ambasciatore d’Ungheria sulla figura di János Esterházy, pubblicato su L’Osservatore Romano il 5 aprile 2017, in occasione del sessantesimo anniversario della morte.

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La testimonianza di János Esterházy

Promotore della fratellanza tra le nazioni

di EDUARD HABSBURG-LOTHARINGIAI

“Tutto va bene come il buon Dio lo vuole. Se Egli ha pensato che sia bene così, allora va bene anche per me. Chi sono io per obiettare al volere di Dio?” Con tale animo il conte János Esterházy affrontò le sofferenze dei lavori forzati e della prigione. Un vero e proprio calvario che giunse a termine proprio sessant’anni fa nella fortezza-prigione di Mírov, in Cecoslovacchia. La sua figura riassume in qualche modo il dramma che nel ventesimo secolo toccò ai popoli dell’Europa centrale.

Discendente di due delle famiglie aristocratiche più importanti dell’Ungheria e della Polonia, nacque nel territorio dell’odierna Slovacchia e le sue ceneri ora riposano a Praga. Difese i diritti della sua comunità, aiutò i perseguitati durante la seconda guerra mondiale, contrastò sia il nazismo che il comunismo e dovette subire i lavori forzati nei gulag sovietici e il carcere nella Cecoslovacchia comunista. Soprattutto, però, è stato un uomo dalla profonda fede cattolica e un promotore convinto della fratellanza tra le nazioni.

Nato ai tempi della monarchia austro-ungarica, a Nyitraújlak (oggi Velké Zaluzie in Slovacchia), il 14 marzo 1901, il conte János Esterházy perse il padre da giovanissimo e fu cresciuto dalla madre polacca, Elzbieta Tarnowska, assieme alle sorelle Lujza e Mária. Negli anni trenta scelse di entrare in politica per rappresentare la comunità degli ungheresi della Cecoslovacchia. Fu presidente del Partito cristiano sociale, ispirato dai principi della Rerum novarum, e deputato al parlamento di Praga e poi a quella di Bratislava. Guidato dalla sua fede cristiana e dalla convinzione circa la necessità di una riconciliazione tra cechi, slovacchi e ungheresi, il suo obiettivo politico fu quello della realizzazione di quanto i trattati di pace di Versailles assicuravano alle minoranze nazionali dei vari paesi. Fu così che si batté non solo per gli ungheresi della Cecoslovacchia ma anche per gli slovacchi dell’Ungheria. Karl Schwarzenberg, già ministro degli Affari esteri della Repubblica Ceca lo volle perciò ricordare come “uno dei politici più onesti dell’Europa centrale”.


Durante la seconda guerra mondiale facilitò la fuga dalla Polonia occupata dai tedeschi di tante personalità politiche e di molti ebrei che poterono trovare rifugio in Ungheria o proseguire verso i paesi occidentali. Altrettanto fece quando a dover fuggire furono i politici cecoslovacchi e poi si prodigò per salvare gli ebrei della Slovacchia.

Statua di János Esterházy a Budapest
- lo ritrae prigioniero al Gulag, con le stazioni
della sua prigionia iscritte sul monumento
(opera di János Nagy)
Nelle ultime settimane dell’occupazione tedesca fu braccato dalla Gestapo e dovette nascondersi a Bratislava. Subito dopo la guerra volle incontrare il commissario per gli Interni della Cecoslovacchia, il comunista Gustáv Husák, per parlare della causa della comunità ungherese. Husák però lo fece arrestare, con l’accusa di essere stato nazista e lo consegnò ai sovietici. Deportato nell’Unione Sovietica, nella temutissima prigione della Lubianka di Mosca, fu condannato in un processo farsa, dopo indicibili torture, a dieci anni di lavori forzati. Prigioniero nei vari campi del Gulag siberiano si ammalò gravemente. Nel frattempo fu condannato a morte come criminale di guerra nazista dal tribunale nazionale slovacco di Bratislava. I sovietici lo riconsegnarono alle autorità cecoslovacche nel 1949 perché la sentenza capitale fosse eseguita. Per l’intervento di diverse personalità (tanti, infatti, conoscevano la verità) gli venne concessa la “grazia” dell’ergastolo.

Curato per alcune settimane nell’ospedale di Bratislava, Esterházy avrebbe avuto modo di fuggire, ma egli rifiutò l’aiuto offertogli dicendo di avere la coscienza pulita e di non voler abbandonare la sua patria e la sua comunità. Iniziò così la seconda parte della sua vera e propria via crucis nelle diverse prigioni della Cecoslovacchia che egli accettò come espiazione per la sua comunità. “Sai – disse alla sorella – avevo sempre pregato per poter tornare qui, dove almeno potessi assistere alla messa, e questo mi è stato già concesso.”

La sua famiglia nel frattempo si disperse nel mondo: la moglie e i due bambini fuggirono in Ungheria, dove vennero internati dai comunisti a causa della loro origine aristocratica. I figli poi riuscirono ad emigrare in occidente. Sua madre e la sorella maggiore, Lujza Esterházy, anch’ella impegnata nel movimento cristiano sociale, emigrarono in Francia. Solo la sorella minore, Mária (essendo anche cittadina polacca per via del marito e così più protetta) poté rimanergli vicino, anche a costo di immense difficoltà, per poter assisterlo con le rare visite concesse e per tentare continuamente di ottenere la grazia per lui. Proprio dai diari e dalle lettere di lei riusciamo a conoscere alcuni aspetti del vero e proprio martirio di János Esterházy, testimonianza sostenuta anche dai resoconti di alcuni dei suoi compagni di prigione, sia in Siberia che in Cecoslovacchia (è menzionato persino da Alexandr Solzenicyn nel romanzo Il primo cerchio).

Dalle testimonianze emerge come Esterházy affrontasse la prigione con lo stesso spirito di servizio che prima animava il suo impegno politico. Abbandonatosi del tutto al volere della divina provvidenza offrì le proprie sofferenze per la sua famiglia e per la sua comunità più larga. “La sua fede nella grazia divina risultò più forte di ogni odio e rancore nei confronti di quanti gli avevano causato tante e terribili sofferenze”, ebbe a scrivere di lui Dagmar Babčanová, già ambasciatrice della Slovacchia presso la Santa Sede.

Nell’ambiente disumano delle carceri egli, infatti, mantenne la serenità, nonostante la malattia gravissima ai polmoni e la situazione umanamente priva di ogni speranza. Riuscì, anzi, a infondere speranza nei propri compagni e, addirittura, ad approfondire la loro fede, praticando delle piccole opere di carità in mezzo a tutte le privazioni. Fu in tutto ciò sostenuto dalla preghiera costante e dal “cibo più importante”, come lo descriveva in codice nelle rare lettere alla sorella, ossia dall’eucaristia. L’ostia consacrata gli veniva, all’inizio, spedita dalla sorella, nascosta fra i biscotti. In alcune prigioni, invece, ebbe l’occasione di assistere alle messe “clandestine” celebrate dai sacerdoti, prigionieri anch’essi della dittatura comunista.

János Esterházy spirò, dopo anni di sofferenze, la mattina dell’8 marzo 1957, nella prigione di Mírov, assistito da Vasil Hopko, vescovo martire greco-cattolico di Presov, beatificato nel 2003. La sorella Mária chiese invano alle autorità l’estradizione della sua salma per poterla seppellire nella sua terra. Vollero che Esterházy rimanesse in prigione anche da morto.

Dopo la caduta del comunismo è stata la figlia, Alice Esterházy-Malfatti, residente in Italia, a sollecitare il processo di riabilitazione del padre martire, e a promuovere eroicamente la diffusione di una conoscenza reale della sua figura, per cancellare le calunnie che gli furono mosse. Nel 1993 la Russia riabilitò Esterházy, riconoscendogli di essere stato vittima di un processo politico. Nel 2009 la Polonia gli conferì l’onorificenza della “Polonia Restituta” per il suo aiuto ai polacchi durante la guerra. Nel 2011 la Anti-Defamation League lo volle onorare con il Jan Karski Courage to Care Award per aver salvato la vita a tanti ebrei.

Lapide sulla casa dove János Esterházy
abitava a Budapest
L’ultimo desiderio di János Esterházy di essere sepolto nella sua terra rimane tuttora inesaudito. Infatti, solo nel 2007 è stato possibile accertare che l’urna con le sue ceneri è stata deposta nel cimitero dell’ex prigione di Motol, a Praga, oggi memoriale delle vittime del comunismo. Una lapide lo ricorda a Motol, un’altra a Mírov, così come molti altri monumenti sia in Slovacchia che in Ungheria. Sempre più persone sono convinte che Esterházy sia non solo vittima di un’epoca ingiusta, ma anche martire della riconciliazione tra i popoli centro-europei.

Sin dalla sua morte, inoltre, è viva la fama di santità di János Esterházy. Lo sostenevano non solo i familiari e i conoscenti ma, prima di tutto, i suoi compagni di prigionia. Pochi mesi dopo la sua morte, un sacerdote, che non lo conosceva e al quale era stato chiesto di offrire regolarmente la messa in suo suffragio, dichiarò ai parenti: “Non so chi sia stata questa persona ma quando celebro la messa per lui mi viene ogni volta l’ispirazione di commemorarlo non tra i defunti ma tra i santi”.

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