Per capire meglio la
Chiesa che è in Transilvania, quella di rito latino e di lingua ungherese, non
si può prescindere dalla figura del Servo di Dio Áron Márton. Chiamato anche
oggi, a quarant’anni dalla morte “il Vescovo”, egli è stato pastore intrepido
della comunità cattolica di quelle terre nell’epoca difficilissima delle
dittature atee (1938-1980). Un pastore “dall’odore delle pecore” che, nella
lontana Transilvania, anticipò di trent’anni certe linee pastorali del Concilio
Vaticano II, comprendendo l’importanza della nuova evangelizzazione. Conservò
la fedeltà alla Santa Sede e la disciplina nel suo clero, suscitò vocazioni
sacerdotali e, quando era il momento, fece di tutto per difendere i
perseguitati: sia gli ebrei che i greco cattolici.
La sua biografia, pubblicata un paio di anni fa dalla Editrice Velar in italiano,
inglese, tedesco, romeno e ungherese, offre una buona sintesi della vita e del
pensiero di questo figlio della Terra dei Siculi (in ungherese Székelyföld), definito
da San Giovanni Paolo II come “integerrimo servo del Signore”.
Nell’introduzione al volume l’autore, László Virt offre subito una visione del significato ecclesiale ed umano di Áron Márton: “Il volto più autentico della storia della Chiesa è sempre rappresentato dall’opzione preferenziale per i piccoli, i diseredati e gli oppressi. Lo status di minoranza non è, perciò, estraneo alla Chiesa. Essa, infatti, nella sua identità più genuina ha sempre coscientemente rifiutato ogni forma di dominio, affermando che il “potere” non consiste nella forza (spesso anche fisica), ma piuttosto nella grandezza spirituale e morale (cf. 2Cor 12,10 e 13,9). Se cerchiamo, nei territori di lingua ungherese, una figura che incarni nella propria vita questa reale autorità della Chiesa, è difficile non pensare al Vescovo romano cattolico della Transilvania Áron Márton. Egli riassumeva in sé un triplice stato di minoranza. Come ungherese in Romania, faceva parte di una minoranza etnica. In quanto cattolico, rappresentava una minoranza religiosa laddove la confessione di Stato era la Chiesa ortodossa. Come credente, rispecchiava una concezione del mondo minoritaria nel periodo comunista, in quanto difese sempre strenuamente l’autonomia della comunità ecclesiale a lui affidata, senza mai scendere a compromessi con il regime politico ateo.”
La vita di Áron Márton iniziò, nel 1896, in un paesino della Terra dei
Siculi, non lontano dal Santuario di Csíksomlyó, visitata da Papa Francesco,
Csíkszentdomokos (oggi Sândominic). Dopo il liceo venne arruolato nell’esercito
austro-ungarico e per anni combatté, e venne anche ferito tre volte, a Doberdò,
negli Carpazi e sull’Altopiano di Asiago. Sul fronte isontino, a Doberdò, la
sua memoria viene rievocata da un cartellone informativo e da appositi
pellegrinaggi. La guerra rappresentò certamente un’esperienza formativa dolorosa
che successivamente lo portò ad evitare ogni soluzione violenta nel cercare di
risolvere i gravi problemi della sua gente, anzi, divenne apostolo della
non-violenza.
Dopo la guerra entrò
nel seminario di Gyulafehérvár (Alba Iulia) e venne ordinato sacerdote nel
1924, quando ormai la Transilvania apparteneva alla Romania. Svolse diversi
incarichi pastorali e di insegnamento, sia in contesti rurali che cittadini,
sia in territori a prevalenza ungherese sia in quelli dove i magiari, e i
cattolici stessi, erano minoranza. Questi anni diventarono per lui una vera scuola di dialogo e di
comprensione.
Dopo otto anni di pastorale venne chiamato al servizio della Curia Diocesana,
come cappellano e archivista, poi come segretario del vescovo Majláth, dove sperimentò
la realtà della lotta quotidiana per la difesa dei diritti della
Chiesa e della minoranza ungherese. Nominato, nel 1932 cappellano universitario
a Kolozsvár (Cluj), Márton si dedicò alla formazione della futura classe
intellettuale cattolica. Anticipando il Concilio Vaticano II, già allora “sapeva
che i fedeli laici sono chiamati a una
missione apostolica autonoma ed era cosciente del fatto che il
cristianesimo può essere fecondo solo in quanto impregna tutta la vita e non
solamente una parte di essa”.
L’impegno di Áron
Márton “mirava a liberare l’energia naturale insita nel popolo per svilupparne
la personalità e incoraggiarne l’impegno nella costruzione della società”.
Aderiva in questo modo ad un movimento intellettuale le cui figure di
riferimento furono dei personaggi come i compositori Béla Bartók e Zoltán
Kodály, “i quali attingendo alla musica popolare edificarono una cattedrale
alla moderna musica magiara”.
Per Márton la missione
evangelizzatrice della Chiesa era strettamente legata ai valori “popolari” e così
“riuscì a formulare un linguaggio
pastorale moderno, comprensibile sia alla gente comune sia alla classe
intellettuale”. Anzi, “la conoscenza dell’antica eredità culturale del
suo popolo, la consapevolezza dei conflitti sociali che stavano scardinando la
cultura del suo tempo, l’impegno nella missione della Chiesa fecero di lui
l’apostolo ante litteram della nuova evangelizzazione”. Tuttavia Áron
Márton non cedeva neanche alla distorsione dell’idea nazionale, imperante
all’epoca, in quanto “egli anteponeva l’identità cristiana a quella nazionale,
perché Dio è il Creatore, la nazione solo una creatura”. Non tollerava
l’istigazione all’odio nazionalista ed è rimasta memorabile la sua affermazione per cui “È un vero magiaro colui che
prima di tutto si impegna per Dio.”
Fu nominato vescovo di
Gyulafehérvár (Alba Iulia) e consacrato il 12 febbraio 1939 a Kolozsvár (Cluj),
nella chiesa di San Michele. Sin dall’inizio del suo ministero episcopale
dovette affrontare delle sfide epocali. Fu “una persona costretta dal mondo
alla periferia, che (…) ha saputo vedere chiaro ed espletare la sua funzione
con pura coscienza evangelica”.
Nel 1940, con il
secondo arbitrato di Vienna, la diocesi venne divisa in due parti: la parte
settentrionale, a maggioranza ungherese, tornò all’Ungheria per alcuni anni,
mentre quella meridionale, dove i cattolici ungheresi costituivano una
minoranza, rimase alla Romania, con la sede stessa di Gyulafehérvár. Il Vescovo
scelse allora di restare nella parte romena della diocesi “per condividere in
tutto la sorte dei suoi connazionali ungheresi della diaspora, situazione di
minoranza particolarmente dura e imprevedibile durante la Seconda Guerra
Mondiale”.
Durante la
persecuzione degli ebrei il Vescovo Márton intervenne in pubblico e con
fermezza per fermare le deportazioni e salvare più persone possibile. Il suo
impegno nel 1999 verrà, infatti, riconosciuto da Yad Vashem con l’assegnazione
del titolo di Giusto fra le Nazioni.
Nel 1946, in occasione
dell’annuale pellegrinaggio a Csíksomlyó il Vescovo Áron Márton delineò una
visione cristiana del mondo, costruita sulle indicazioni di Papa Pio XII che,
per alcuni anni dopo la guerra, si sperava di poter realizzare. Accogliendo
l’idea del pluralismo sapeva accettare le opinioni discordanti dalle sue, ed
essendo un maestro nell’arte del dialogo e della comprensione, era molto adatto
all’evangelizzazione di un mondo sempre più secolarizzato. Vivendo durante due
regimi totalitari, il nazismo e il comunismo, egli riteneva che solo i princìpi
democratici fossero in grado di formare una società veramente a misura d’uomo.
Tuttavia, dal 1945 si
moltiplicarono sempre di più le violazioni dei diritti dei magiari in Romania e
poi si arrivò alla soppressione di un’altra minoranza, quelle dei
greco-cattolici, da parte del potere comunista. Appena lo Stato soppresse con
la forza la Chiesa greco-cattolica dei rumeni della Transilvania, il Vescovo
Márton espresse la sua solidarietà, a nome dei cattolici latini della
Transilvania verso i loro fratelli di rito bizantino. Anzi, con una circolare invitava i propri
sacerdoti a sostenere i greco-cattolici perseguitati e, se necessario, anche ad
accoglierli nelle loro chiese. Sia il futuro Cardinale Alexandru Todea,
Arcivescovo greco-cattolico di Balázsfalva (Blaj), che l’attuale Cardinale
Arcivescovo Maggiore Lucian Mureşan riconoscevano i meriti di Áron Márton.
Quest’ultimo dichiarò a proposito di Márton: “Vedendolo da vicino ebbi la
sensazione di trovarmi al cospetto di un
santo. Non sapevo spiegarmi, né ora saprei farlo, che cosa mi accadde, fu
qualcosa di veramente straordinario”.
Biografia di Áron Márton pubblicata in diverse lingue dalla Velar |
Dopo la sua
scarcerazione il Vescovo Márton liquidò subito il cosiddetto “movimento
cattolico della pace”, introdotto dai comunisti per dividere la Chiesa. Tuttavia
“perdonò quanti, pur avendo peccato contro la disciplina ecclesiastica, si
erano pentiti e avevano confessato il loro peccato”. Dal 1956 fino alla morte
fu costantemente sorvegliato dai famigerati servizi segreti rumeni della
Securitate e tra il 1957-1967 era posto agli arresti domiciliari: non poteva
lasciare il episcopale e la cattedrale adiacente.
In quel periodo,
tuttavia, almeno i suoi seminaristi potevano beneficiare dell’intensa vita
spirituale che il loro Vescovo continuava ad irradiare. Le sue omelie pronunciate
nella cattedrale “testimoniano che, anche se separato dal mondo, egli teneva il
passo con i mutamenti che vi accadevano. Quei discorsi, pronunciati ormai a più
di settant’anni di età, rivelano ancora freschezza intellettuale, profonda
spiritualità e una fede vissuta e resa autentica dall’esperienza di vita.”
Dal suo “esilio
interno” seguiva con molto interesse gli sviluppi del Concilio Vaticano II. “Il
pensiero di Márton, infatti, aveva precorso in certo qual modo lo spirito del
Concilio già negli anni Trenta, quando, come assistente spirituale degli
universitari, formava apostoli laici, o quando, in qualità di redattore del
periodico da lui fondato, si preoccupava di fornire basi cristiane a quanti
lavoravano nel campo della cultura e della pedagogia. Così si muoveva nello
spirito del Concilio come difensore dei diritti umani e opponendosi alle
dittature di ogni tempo. (…) Ormai anziano, nei suoi discorsi richiamava la
necessità di superare la vecchia visione clericale della Chiesa, perché Cristo
non l’ha destinata a dominare, quanto piuttosto a servire.”
Nel 1967 vennero revocati gli arresti
domiciliari e, nonostante la salute provata da svariate malattie, si dedicò
alla visita delle comunità della sua diocesi, la Transilvania. I suoi discorsi
e lettere pastorali significarono un raggio di speranza, le sue visite
pastorali e le cresime da lui celebrate furono delle feste autentiche. La sua
mera presenza indusse un rinnovamento religioso. “Grazie a lui, il numero dei
sacerdoti aumentò. In occasione delle ordinazioni sacerdotali parlò del
cristianesimo come impegno e servizio personale. Fu saggio, indefesso, dignitoso
e santo anche nelle situazioni più disperate.”
Partecipò al Sinodo dei Vescovi del 1971, e quando Paolo VI lo ricevette in
udienza privata, appena lo vide entrare, “si alzò e gli corse incontro, lo
abbracciò e poi, rivolgendosi ai giovani sacerdoti presenti, raccomandò loro di
seguire in tutto il loro Vescovo, perché
è un santo”. Il Vescovo Márton, forte della sua esperienza di oltre la
cortina di ferro “vedeva chiaro e sapeva ben distinguere tra la responsabilità
della Chiesa nei confronti della società (…) da quella politica dei partiti
che, se abbracciata, avrebbe ridotto la Chiesa a semplice strumento del potere
terreno o l’avrebbe portata a dominare.”
Papa Giovanni Paolo II
per ben sette volte non volle accettare le sue dimissioni e solo dopo aver constatato
quanto il Vescovo fosse ormai allo stremo delle forze, gli concesse di ritirarsi.
Áron Márton si spense poco dopo, il 29 settembre 1980, festa di San Michele
Arcangelo, patrono della sua diocesi. La causa di beatificazione, iniziata nel
1990, è attualmente in corso presso la Congregazione delle Cause dei Santi.
La devozione nei
confronti di Áron Márton è andata crescendo negli anni in tutte le comunità
ungheresi. Nel 2016 è stato celebrato uno speciale “Anno Áron Márton”,
nell’ambito del quale le sue spoglie sono state solennemente traslate in un
sarcofago di marmo nella cattedrale di Gyulafehérvár (Alba Iulia). Nel paese
natale, a Csíkszentdomokos un museo è stato dedicato alla sua figura, che ne conserva
cimeli personali e fotografie ma, soprattutto, intende presentare la sua opera
di pastore fedele.
“La mia missione santa mi impegna di essere il vescovo dei poveri e dei ricchi, degli istruiti e di quelli che non hanno la possibilità di studiare, dei nobili e delle persone semplici, dei fortunati e degli sfortunati, dei peccatori e di quelli nello stato di grazia. Devo indicare a tutti la strada che porta verso Dio, devo mostrarla e renderla desiderabile. Questa mia stessa missione apostolica mi impegna di parlare della nostra fede santa e degli impegni che nascono dalla fede. Dobbiamo imparare a lavorare gli uni per gli altri e a lavorare insieme in ogni campo della vita.” (dalla prima lettera pastorale di Áron Márton, 1939)
(foto: Romkat.ro, ersekseg.ro)
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“La mia missione santa mi impegna di essere il vescovo dei poveri e dei ricchi, degli istruiti e di quelli che non hanno la possibilità di studiare, dei nobili e delle persone semplici, dei fortunati e degli sfortunati, dei peccatori e di quelli nello stato di grazia. Devo indicare a tutti la strada che porta verso Dio, devo mostrarla e renderla desiderabile. Questa mia stessa missione apostolica mi impegna di parlare della nostra fede santa e degli impegni che nascono dalla fede. Dobbiamo imparare a lavorare gli uni per gli altri e a lavorare insieme in ogni campo della vita.” (dalla prima lettera pastorale di Áron Márton, 1939)
(foto: Romkat.ro, ersekseg.ro)
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