Intervista del premier ungherese sul dovere di aiutare, sulle responsabilità
a cerchi concentrici, sul suo incontro con le famiglie dei copti decapitati
dall’IS, sull’Europa e le quinte vuote del cristianesimo, sulla cultura dello
scarto e la misericordia.
Pubblichiamo,
nella nostra traduzione, l’intervista concessa dal Primo Ministro ungherese
Viktor Orbán (di religione protestante) al portale d’informazione cattolico
della Conferenza Episcopale Ungherese “Magyar Kurír” il 24 settembre 2016.
* * *
Nello scorso
agosto lei ha incontrato a Roma i capi delle chiese cristiane del Medio
Oriente. Perché ha ritenuto importante di partecipare all’incontro e di cosa
hanno parlato i capi delle comunità cristiane?
Si è trattato di un incontro
interessante ma anche commovente. Qui in Europa pensiamo che la nostra situazione
sia oltremodo complicata ma se andiamo ad ascoltare un vescovo del Medio
Oriente capiamo subito che i nostri problemi siano i più facili al mondo
rispetto a quanto sono complesse le cose di là. Una parte dei vescovi medio-orientali
è stata cacciata via, soprattutto quelli che vivevano ed operavano nella Siria.
Il loro servizio pastorale adesso si concentra sulla salvezza delle persone,
cercando di proteggere le loro comunità che sono sull’orlo dell’annientamento
fisico. Fanno grandi sforzi anche affinché la fede cristiana possa persistere
in quella parte del mondo. Ci hanno riferito di situazioni difficilissime dal
punto di vista umano, morale, spirituale, politico ed economico.
Con una
decisione del Governo in settembre è stato creato, presso il Ministero delle
Risorse Umane, un sottosegretariato per i cristiani perseguitati. Come
funzionerà tale struttura?
In politica spesso già i
preparativi valgono come delle azioni e questo è il caso anche di tale
decisione. Nel discorso pubblico liberale di oggi non è possibile parlare delle
differenze culturali con la dovuta serietà. Se vogliamo avanzare una proposta a
favore dei cristiani perseguitati ci rendiamo conto che in campo europeo ciò
non sia possibile in questa forma. Si possono produrre solo dei documenti con formulazioni
generali e neutre sulle persone perseguitate a causa della loro fede e
religione, ma non è possibile scrivere concretamente dei cristiani. Noi abbiamo
voluto farla finita con questo approccio. L’Ungheria è un paese cristiano e così
noi dobbiamo aiutare in primo luogo quelli che ci sono più vicini, e questi
sarebbero i cristiani. Il nostro governo è di ispirazione cristiana e da questo
sorgono anche degli obblighi di governo. Anche nel passato abbiamo fornito diverse
volte degli aiuti, l’ultima volta abbiamo contribuito con 120 milioni di HUF
all’iniziativa della Conferenza Episcopale Ungherese che mirava alla
realizzazione di una scuola a Erbíl. Anche questo è di aiuto ai cristiani
perseguitati ma durante i preparativi abbiamo riscontrato grandi ostacoli.
L’ufficio di sottosegretariato che adesso è stato formato potrà coordinare
efficacemente questo tipo di lavori.
Durante la
sua visita in Egitto, nel giugno di quest’anno, Lei ha voluto incontrare i capi
della Chiesa copta e i familiari dei martiri copti decapitati in Libia dall’IS.
Perché ha ritenuto importante tale incontro?
È stato particolarmente difficile
parlare con delle persone che hanno attraversato un simile trauma. Da una parte
li ho ringraziati per la possibilità di incontrarli. Poi volevo sapere come
potevamo essergli d’aiuto. Ogni aiuto ha la sua parte ma è tutt’un altra cosa
se ciò si basa su un rapporto personale. Considero importante che dietro la
beneficienza ci siano dei volti e degli incontri perché questo rafforza anche
l’assistenza.
Come sarebbe
possibile, a suo avviso, porre termine alla guerra in Siria e alla catastrofe
umanitaria? E cosa può fare l’Ungheria?
L’Ungheria non può certo
ambizionare di fare più di quanto consegue dal suo peso internazionale e dalle
sue forze. Deve impegnarsi per quanto invece è in grado di fare. Prendiamo
parte alle missioni internazionali di pace ma non saremo noi a decidere le
sorti della Siria. Sono quelle grandi potenze a poter fare di più che sono
anche i responsabili della situazione che si è venuta a creare. La situazione
creatasi oggi in Europa, che io chiamo una migrazione dei popoli, non si
esaurisce nel tentativo dei profughi di lasciare le zone colpite dalla crisi.
La migrazione dei popoli è in corso da qualche decennio e durerà ancora a
lungo. Le masse che si riversano sull’Europa occidentale provengono, in gran
parte, non dalla Siria ma dall’Afganistan e dal Pakistan. Quindi solo una parte
di questo fenomeno è costituito dai profughi della guerra, mentre nel futuro
saranno quelli che partono dalle zone interne dell’Africa a creare i problemi
più grandi. Tutto ciò dimostra che i nostri problemi non termineranno neanche
con la pace in Siria.
A livello
della società spesso come se chiudessimo le orecchie e il cuori di fronte alle
notizie di sofferenze che ogni giorno ci raggiungono. Come sarebbe possibile
sensibilizzare la società?
Dei sette miliardi di persone nel
mondo tre miliardi devono vivere con meno di due dollari al giorno. I
benestanti, come lo siamo anche noi in Europa, possono certo avere qualche
rimorso di coscienza per questo. In fondo all’anima ci disturba che noi viviamo
molto meglio di altri. E questo vale anche laddove la ricchezza non è legata ad
un passato colonialista. È chiaro che dobbiamo fare per loro tutto quanto ci è
possibile. Ritengo che la responsabilità per gli altri sia da immaginarsi per
cerchi concentrici. Ho una responsabilità primaria per le persone che mi stanno
più vicine: la mia famiglia, i miei amici, la mia comunità di fede e la mia
nazione. Ma ci sono dei cerchi che vanno oltre a questi e se ne ho la
possibilità devo aiutarli. Ma non alla maniera dei farisei. Le grandi azioni
umanitarie ad hoc non sono
sufficienti, mentre non è neanche opportuno, anzi è addirittura dannoso,
invitare nei nostri paesi una parte delle masse disagiate. È responsabilità dei
politici promuovere con il loro operato politiche di sviluppo internazionali
che migliorino le condizioni di vita anche nelle parti più povere del mondo.
L’Ungheria, adempiendo
ai dettami della Legge fondamentale, continua ad accogliere dei rifugiati. La
Comunità di Sant’Egidio ha promosso in Italia, ma sono in preparazione anche in
altri Paesi comunitari, i cosiddetti corridoi umanitari per i profughi più
bisognosi. Non pensa di aderire all’iniziativa?
Noi siamo in stretti contatti con
i Paesi Visegrád, ed è con loro prima di tutto che ci coordiniamo su queste
questioni. Siamo aperti ad ogni risposta che non infranga il principio per cui
si deve portare gli aiuti là dove ci sono problemi invece di importare qui i
problemi.
Papa
Francesco ha paragonato l’Europa ad una nonna stanca, caratterizzata
dall’individualismo. Lei come la vede l’Europa?
Condivido questa opinione. Mentre
in Europa il cristianesimo sta attraversando un periodo di bassa, in altre
parti del mondo è invece in espansione. È stato qui che il cristianesimo aveva
attecchito ma il suo baricentro ormai non è in Europa. Si è, infatti, come dice
il Santo Padre, formato un sistema di pensiero contrario al cristianesimo che mette
al centro se stesso. Le quinte del cristianesimo ci sono ancora ma il contenuto
sta per svanire. Però quanto si è esaurito una volta potrebbe in seguito
riprendere ancora a scorrere – e io confido in questo.
Il Santo Padre a più riprese ha parlato della cultura dello scarto. Secondo
Lei come possiamo combattere questa cultura?
Spesso è
proprio ciò che caratterizza la nostra convivenza con le persone. Scartiamo facilmente
anche un’amicizia, un matrimonio invece di fare un tentativo per ripararli. L’uomo
europeo ritiene oggi di poter vivere una vita piena anche senza confrontarsi con
il proprio Creatore, con la propria coscienza o con qualsiasi cosa che non sia
immediatamente legata al suo successo. È più facile trasformare, rinnovare
qualcosa, molto più difficile è, invece, metterla su basi spirituali
completamente nuove. È anche per questo che il rinnovamento spirituale spesso incontra
degli ostacoli.
Come vede allora il futuro dell’Ungheria?
Tutta l’Europa
sta vivendo dei tempi cruciali. Si tratta di un’epoca vibrante. Molte volte ci
sono state in precedenza dei punti di svolta irruenti – per esempio il cambio
di regime o la riunificazione tedesca si sono svolti nell’arco di pochi mesi – ma
quanto sperimentiamo oggi non è così. Viviamo dei processi più lenti, più diffcili.
Tutti percepiamo come ora l’umanità stia per passare in una nuova era. Nell’economia
la sfida è quella di preservare la competitività. Nel campo della preparazione
professionale la questione è se una mentalità di tipo tradizionale sia rimpiazzata
da una moderna, basata sulla conoscenza delle tecnologie digitali. Passando ai
processi sociali: saremo in grado di invertire la decrescita demografica?
Riusciremo a salvare le comunità di fede oppure sarà l’individualismo a
prendere ovunque il soppravvento? C’è poi l’effetto sulle nostre vite della
sperimentazione dell’intelligenza artificiale. Queste questioni si decideranno
ancora durante la nostra vita. E dobbiamo certo discuterne con la gente. Per fortuna
in Ungheria abbiamo una cultura politica che permette il dialogo aperto e franco
su tutti i temi importanti. Purtroppo ormai non è ovunque così in Europa.
La Chiesa sta vivendo l’Anno
della Misericordia. Cosa significa per Lei la misericordia?
Penso
che il messaggio più importante sia quello di aprire i nostri cuori agli altri,
poiché l’uomo che si chiude in se è perduto. La Chiesa cattolica può aiutare in
questo e potrà, con la sua fermezza, la sua solidità – da pietra d’angolo – essere
un punto di riferimento per la nostra vita anche nel futuro.
(intervista di István Kuzmányi, traduzione di Márk A. Érszegi, foto: Attila Lambert)
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