Si è tenuta,
l’8 giugno 2017, nell’Abbazia di Santo Stefano a Genova, una commemorazione del
Card. József Mindszenty, promossa dal Comitato Papa Pacelli – Associazione Pio
XII. Dopo la S. Messa il Presidente del Comitato, l’ Avv. Comm. Emilio
Artiglieri ha tenuto una relazione sulle figure di Pio XII e del Card.
Mindszenty. A conclusione dell’evento l’Ambasciatore d’Ungheria presso la Santa
Sede Eduard Habsburg-Lothringen ha pronunciato parole di apprezzamento e di
ringraziamento.
Pubblichiamo
il testo dell’intervento del Presidente Emilio Artiglieri.
* * *
Pio XII strenuo
difensore del Card. Mindszenty
1. Saluti
È per me un
grande onore porgere in questa millenaria Abbazia il mio saluto a Sua
Eccellenza il Sig. Eduard Habsburg-Lothringen, Ambasciatore di Ungheria presso
la Santa Sede e il Sovrano Militare Ordine di Malta.
È forse più
di una felice coincidenza il fatto che ci troviamo in questo luogo sacro
dedicato al protomartire Santo Stefano: con il nome di Stefano fu infatti
battezzato il primo re cristiano d’Ungheria, vissuto tra la fine del X e l’XI
secolo, e che sarebbe stato poi canonizzato; con la Corona di Santo Stefano,
che era stata a lui inviata, secondo la tradizione, dalla Santa Sede, il
Primate, cioè l’Arcivescovo di Esztergom, aveva il diritto di incoronare il Re
d’Ungheria; S. Stefano Rotondo in Roma è la chiesa di cui il Card. Mindszenty
era titolare, e questo per un suo espresso desiderio; ma, soprattutto, S.
Stefano è il primo di una lunga teoria di martiri e confessori della fede, che
testimoniarono, con l’offerta della vita e l’accettazione della persecuzione,
la loro fedeltà a Cristo, quella fedeltà che spinse il Card. Mindszenty a
sopportare le più gravi sofferenze, fisiche e morali, inflittegli da un regime
totalitario, brutale ed anticristiano.
Ed ancora, fu
la sera della Festa di Santo Stefano, il 26 dicembre 1948 che egli venne
arrestato, davanti agli occhi dell’anziana madre affranta.
Il nome del
Card. Mindszenty a Genova non è sconosciuto, anche per la grande venerazione
che il nostro amatissimo Arcivescovo, il Card. Giuseppe Siri, nutriva nei
confronti di questo confessore della fede.
Nelle sue Memorie,
il Card. Mindszenty ricordava che, giunto a Roma nel 1971 “nella Basilica di
San Paolo mi si avvicinò un sacerdote, mi prese la mano, la baciò, mi ringraziò
per le sofferenze che avevo sopportato per la Chiesa e alla fine mi disse:
‘Sono il Cardinale Siri’…” (p. 362).
Noi siamo qui
per prolungare questo ringraziamento e questa venerazione.
A Genova
venne anche costituita una “Lega Cardinale Mindszenty”, che organizzava
conferenze e convegni negli anni in cui il nostro Paese rischiava di cadere in
quello stesso regime totalitario persecutore del Card. Mindszenty.
Mi piace
ricordare che proprio su invito della “Lega”, il Card. Siri il 2 giugno 1980
tenne una solenne, dottissima commemorazione del Card. Mindszenty nella Sala
Quadrivium, e da questa commemorazione trarrò non poche citazioni.
2. Cenni
biografici
Il Nostro
nacque il 29 marzo 1892 a Mindszent da genitori di distinta condizione; il
cognome paterno era Pehm, ma nel 1941, per protesta contro i nazisti,
trattandosi di un cognome germanico, lo cambierà in Mindszenty, prendendolo
appunto dalla città natale.
Fu ordinato
sacerdote il 12 giugno 1915; dei suoi primi anni di sacerdozio egli ricorda:
“Mi si riempiva il cuore di gioia quando riuscivo a risvegliare la fede anche
in casi apparentemente disperati, superando con il dialogo e l’attività
pastorale le difficoltà che certuni provavano di fronte a Dio, alla Chiesa e a se
stessi” (Memorie, p. 11).
Già nel 1919
egli subì il primo arresto e la prima prigionia sotto il regime di Károlyi, e poi
sotto quello, ben più terribile, di Béla Kun.
Non abbiamo
il tempo per descrivere nel dettaglio gli episodi di questo suo primo
incarceramento: basti dire che già allora emerse la fortezza d’animo, unita ad
una grande mitezza e ad una certa ironia, del Servo di Dio.
Così quando,
già in prigione per disposizione - come si è detto - del regime Károlyi, si
presentò, dopo la rivolta di Béla Kun, un funzionario di polizia e gli disse:
“Lei è in arresto”, il giovane Don Jozsef Pehm, come allora si chiamava,
rispose sapidamente, come riferisce nelle sue Memorie: “gli feci notare
che ero prigioniero già dal 9 febbraio 1919, per cui non capivo questo spreco
di autorità statale”, e tra sé pensò: “il cane era rimasto lo stesso, solo il
collare era diventato un po’ più rosso” (p. 15).
Caduta la
c.d. dittatura del proletariato, nell’agosto del 1919 fu nominato Parroco a
Zalaegerszeg, e ivi rimase per venticinque anni: di questo periodo possiamo qui
solo accennare al suo grande zelo pastorale, per cui si trovò a fondare altre
sei parrocchie, ad aprire scuole, creare e presiedere associazioni, né mancò di
dedicarsi agli studi storici, con pubblicazioni di storia ecclesiastica, anche
di grande pregio.
Il 25 marzo
1944 fu consacrato Vescovo di Veszprém, ma, nello stesso anno, subì un secondo
arresto ed una seconda prigionia, questa volta ad opera dei nazisti e di quanti
collaboravano con loro, quelli che aderivano al partito c.d. delle “Croci
Frecciate”.
Al di là del
pretesto che venne usato, il vero motivo di questo suo arresto fu l’aver manifestato
la sua contrarietà alla deportazione da Veszprém degli ebrei; questa seconda
prigionia terminò solo nell’aprile del 1945, con la fine della guerra.
Osservava
nelle sue Memorie: “Da Occidente premeva il pericolo bruno, da Oriente
quello rosso”.
Il 2 ottobre
1945, da Pio XII, fu promosso Arcivescovo di Esztergom, in latino Strigonia, e
quindi Primate d’Ungheria. Egli stesso nelle sue Memorie ricorda che tale decisione fu presa personalmente dal Papa,
il quale – così egli scriveva - “conosceva il mio temperamento, sapeva
della mia attività orientata più in senso pastorale che politico … il Nunzio
Apostolico lo aveva messo al corrente del modo con cui reggevo la Diocesi,
nonché dell’arresto e della prigionia che avevo sopportato” (p. 51).
Circa i
rapporti con Pio XII, il Card. Mindszenty ancora riferisce: “Nel dicembre 1945
durante il mio viaggio a Roma riuscii ad aprire fonti generose per la Caritas
ungherese. Il Santo Padre Pio XII mi ricevette con una amabilità
indescrivibile. Quando gli esposi la difficile situazione dell’Ungheria, egli
mi aprì la strada in tutte le direzioni in cui potevo trovare aiuti” (p. 63).
Per diverse
pagine delle sue Memorie il Card.
Mindszenty si sofferma sulla figura di Pio XII, sottolineando la dolcezza e la
bontà di questo Pontefice: “Avevo sempre stimato e valutato Pio XII come una
personalità eminente, ora però dovevo sperimentare di persona quale Santo Padre
pieno di bontà Dio ci aveva dato in lui. Conosceva con precisione la Chiesa
d’Ungheria e il cattolicesimo del nostro Paese. Pacelli era infatti stato
Legato Pontificio al Congresso Eucaristico di Budapest del 1938 e da allora era
sempre rimasto cordialmente unito a noi” (p. 74).
Nel
Concistoro del 18 febbraio 1946, Mindszenty fu creato Cardinale.
Ricorda:
“Forse è stata l’idea che si era fatta della nostra situazione attraverso la
mia descrizione che lo spinse ad abbracciarmi nel Concistoro e a dirmi in
ungherese: ‘Viva l’Ungheria!’.… Quando mi impose il berretto cardinalizio, mi
sussurrò con voce commossa: ‘Tu sarai il primo dei 32 a sopportare il martirio
simboleggiato da questo colore rosso’ …” (p. 76).
Il 28
febbraio ricevette dallo stesso Papa il pallio arcivescovile e il 4 marzo ebbe
l’ultima udienza: non si sarebbero più rivisti su questa terra.
“Fu l’ultimo
incontro – egli scrive – che ebbi con lui, ma la sua bontà paterna e la sua
compassione hanno continuato ad accompagnarmi lungo la mia vita. Egli è sempre
intervenuto per aiutarmi nelle difficoltà e, quando ha potuto farlo, ha sempre
respinto con decisione le manovre dei comunisti nonché quelle dei ‘cattolici
progressisti’. Ripenso con grande gratitudine al modo con cui prese le mie
difese quando fui incarcerato e tradotto in Tribunale, nonché alle parole affettuose
del telegramma che mi inviò nel 1956, dopo la mia liberazione” (p. 77).
Insomma, Pio
XII e il Card. Mindszenty erano legati da una profonda, reciproca stima che,
come si è ora accennato, e come vedremo meglio in seguito, si manifesterà
soprattutto nel momento terribile dell’arresto e del processo-farsa che il
Primate d’Ungheria dovette subire.
Prima però di
prendere in considerazione questi fatti, è bene chiarire quale fosse la
funzione dell’Arcivescovo di Esztergom e, al riguardo, do la parola al
Cardinale Siri, il quale, nella sua citata commemorazione, aveva spiegato: “la
funzione dell’Arcivescovo di Esztergom è unica nella storia perché fu
considerato, da Stefano il Santo in poi, Principe di Ungheria e, pertanto,
portava il nome di Principe Primate di Ungheria.
Ciò arriva a
questa conseguenza: che assente il Re dal territorio nazionale, succedeva alla
reggenza del regno il Principe Primate. Senza questo particolare, che dà al
Primate di Strigonia una posizione unica, assolutamente unica, costituzionale:
egli era il primo dopo il Re e lo sostituiva, non si capirebbe l’anima di
questo grande uomo.
Non solo, ma
la Santa Sede aveva completato l’opera: aveva dato all’Arcivescovo di Esztergom
il carattere di ‘Legato Pontificio perpetuo’. Pertanto – caso unico nella
Chiesa cattolica – solo il Primate di Ungheria aveva giurisdizione su tutti gli
altri Vescovi del paese. Non era semplicemente un presidente della loro
conferenza nazionale, ma era un superiore e aveva giurisdizione.
E’ necessario
ricordare questo – spiegava il Card. Siri - perché, se non si pensa a questa
funzione sua costituzionale nell’ordine civile, se non si pensa alla sua
funzione legatizia come rappresentante specialissimo del Papa e se non si pensa
alla sua conoscenza della storia (scrisse anche) che lo rendeva partecipe di tutte
le ansietà passate dal suo popolo e di tutte le aspirazioni, non si capirebbe
il Cardinale Mindszenty e non si capirebbe che quest’uomo è tanto un eroe per
la Chiesa come è un eroe per la patria”.
Possiamo
quindi meglio capire anche il significato della illustre presenza stasera di
Sua Ecc.za l’Ambasciatore di Ungheria, presenza che richiama proprio questo
doppio ruolo della figura del Principe Primate, ruolo rivestito con
straordinaria dignità e coraggio dal Card. Mindszenty.
3. Terzo
arresto, processo e prigionia.
Entriamo ora
nel vivo del dramma vissuto dal Card. Mindszenty.
Di fronte
all’affermarsi del regime comunista, totalitario e negatore della libertà, ad
iniziare dalla libertà di educazione, attraverso la nazionalizzazione delle
scuole confessionali (la conquista dei giovani e la scuola confessionale erano
il cuore del conflitto tra Chiesa e Stato), il Principe Primate di Ungheria non
poteva tacere e non denunciare, con i mezzi che la sua posizione e l’enorme
prestigio di cui godeva gli offrivano, le palesi illegalità commesse.
A sua volta,
il regime, secondo la tattica solita dei sistemi totalitari, che uniscono
menzogna e violenza, dapprima avviò una campagna di diffamazione e di
delegittimazione nei confronti del Cardinale, e giunse poi, come già si è
accennato, al suo brutale arresto la sera del 26 dicembre 1948.
Qualcuno
obietta che il Card. Mindszenty sarebbe stato poco “malleabile”, poco disposto
al dialogo e al compromesso, ma egli ben sapeva quale ne sarebbe stato, in
quelle condizioni, l’esito, conoscendo la storia della Chiesa ortodossa in
Unione Sovietica, ossia non solo l’assoggettamento della Chiesa allo Stato, ma,
se circostanze storiche non lo avessero impedito, la stessa distruzione della
Chiesa, così come di ogni forma di religione, secondo quello che era
l’obiettivo del comunismo ateo, definito da Pio XI nell’Enciclica Divini
Redemptoris “intrinsecamente perverso” (n. 58).
Per questo
con il comunismo, ammoniva Pio XI, “non si può ammettere in nessun campo la
collaborazione da parte di chiunque voglia salvare la civilizzazione cristiana
e se taluni – così continuava quel Pontefice – indotti in errore cooperassero
alla vittoria del comunismo nel loro Paese, cadranno per primi come vittime del
loro errore, e quanto più le regioni dove il comunismo riesce a penetrare si
distinguono per l’antichità e la grandezza della loro civiltà cristiana, tanto
più devastatore vi si manifesterà l’odio dei ‘senza Dio’” (ibidem).
E l’odio dei
“senza Dio” si manifestò nella sua virulenza contro il Card. Mindszenty.
Una volta
arrestato, egli venne portato in Via Andrássy 60, quella che potremmo definire
l’equivalente di Via Tasso a Roma, luogo per molti di sofferenza e di torture
indicibili.
Lo
accompagnava solo una piccola immagine del Cristo incoronato di spine, che
portava la scritta: Devictus vincit (vinto ma vittorioso).
In questo edificio
rimase 39 giorni, durante i quali, giorno e notte, subì ogni sorta di violenza
fisica e morale, di scherni, umiliazioni, feroci battiture, al fine di fargli
firmare un documento preconfezionato, che contenesse la “confessione” dei falsi
crimini che gli venivano attribuiti.
Quando, per
le torture fisiche e morali, non riuscì più a resistere, usò uno stratagemma:
firmò, ma accanto alla firma aggiunse due lettere, C e F, intendendo: Coactus
Feci, cioè l’ho fatto costretto.
Quando i suoi
aguzzini gli chiesero cosa significassero quelle due lettere, egli rispose che
era l’abbreviazione di “Cardinalis Foraneus”, titolo che avrebbe
distinto i cardinali di provincia da quelli di Curia.
Per qualche
tempo credettero a questa spiegazione, ma poi scoprirono l’artificio e le
torture continuarono.
Ma quali
erano le accuse che venivano mosse al Cardinale? Sostanzialmente tre.
La prima che
avrebbe congiurato con Otto d’Habsburg, figlio dell’ultimo Imperatore Carlo,
per ristabilire la Monarchia.
Al riguardo,
egli aveva spiegato: “Io ho visto una sola volta, per mezz’ora, il Principe
Otto negli Stati Uniti, quando sono stato al Congresso Mariano di Ottawa, l’ho
visto per mezz’ora, me lo ha chiesto lui di venire. Non ho accettato
assolutamente di parlare di questioni politiche”.
Nonostante la
spiegazione, però, per gli accusatori egli aveva congiurato, “doveva essere
così”, “doveva aver congiurato”, e quello che deve essere così, non può essere
discusso, nessuna prova contraria può essere ammessa.
Ha qualcosa
di ironico, di tragicamente ironico, il dialogo tra il Cardinale e i suoi
aguzzini.
Questi gli
gridavano: “Lei deve confessare così come noi vogliamo che confessi” (Memorie,
p. 195), al che egli ribatteva: “Se qui da voi i fatti non contano, se il
verbale, l’interrogatorio e le accuse sono soltanto una presa in giro, scritti
e parole senza fondamento, non dovrebbe esserci bisogno di una confessione….”
(ibidem).
Possiamo
facilmente immaginare quale fosse la reazione a quelle parole, reazione non
diversa da quella del soldato che schiaffeggiò Gesù per le parole dette al
sommo sacerdote.
La seconda
accusa era quella di spionaggio: anche questa era campata per aria, ma, come si
è visto, in quella farsa di interrogatori a risposte obbligate, e poi di
processo con funzione meramente dimostrativa, i fatti non contavano, contava
solo quello che il regime voleva che fosse.
La terza
accusa riguardava un traffico di valuta.
Su questo
punto occorre spiegare che, finita la guerra, in un periodo di transizione, il
Cardinale aveva cercato, soprattutto in occasione di un suo viaggio in Canada e
negli Stati Uniti, e grazie al potente apparato del Card. Spellman, aiuti per
dar da mangiare al popolo affamato e li aveva ricevuti: nella sola Budapest
aveva aperto 126 luoghi di distribuzione di viveri per dar da mangiare a decine
di migliaia di persone che, altrimenti, sarebbero morte di fame.
Ora, di aver
introdotto valuta estera per poter dar da mangiare al popolo, fu fatto un capo
d’accusa: appunto, commercio di valuta.
Scriveva il
Cardinale: “Se non avessimo avuto a disposizione moneta americana o svizzera
avremmo potuto chiudere subito le nostre cucine … Se oggi in Ungheria avessimo
una situazione politica normale, lo stato ringrazierebbe il cattolicesimo
ungherese, invece di permettere che qui in via Andràssy si compiano torture e
atrocità di cui anche le generazioni future si vergogneranno” (p. 197).
E’ evidente
come si trattasse solo di pretesti, che servivano al regime attraverso un
processo-lampo, iniziato il 3 febbraio 1949 e concluso dopo soli 3 giorni, per
demolire il suo più fiero e nobile avversario: non ci era riuscito Bela Kun,
non ci riuscirono i nazisti, non ci sarebbero riusciti neppure i comunisti.
L’esito di
quel processo, in cui il difensore dell’imputato sembrava soprattutto preoccupato
di difendere gli accusatori, non poté che essere una condanna, e quella
all’ergastolo.
4. La
difesa di Pio XII.
Ma il Card.
Mindszenty, di fronte all’umanità e alla storia, ebbe ben altro difensore che
non quello che gli era stato assegnato dal regime durante quella tragica farsa:
il Pastor Angelicus, il grande Pio XII, quello che a me piace definire
il Papa della carità, e che già, come si è visto, aveva offerto tante
dimostrazioni di stima e di affetto nei confronti del Primate e dell’Ungheria.
Purtroppo le
parole del Papa, in quei momenti, non giunsero al Servo di Dio: “che
consolazione – egli scriverà nelle sue Memorie
– sarebbe stata per me se avessi saputo di questa affettuosa preoccupazione del
Papa. Invece nella mia notte e nel mio dolore non penetrò mai neppure un raggio
di queste parole luminose e benevole” (p. 239).
Secondo
alcune ricostruzioni, il Card. Mindszenty avrebbe ricevuto però il conforto di
Padre Pio, il quale, in un fenomeno di bilocazione, gli avrebbe fatto visita in
carcere, portandogli addirittura il pane e il vino per la celebrazione della
Santa Messa.
Per tornare a
Papa Pacelli, il 2 gennaio 1949 Papa Pacelli aveva inviato una lettera
all’episcopato ungherese, in cui esprimeva la sua deplorazione e la sua forte protesta
contro la grave ingiuria inferta a tutta la Chiesa attraverso l’arresto del
Cardinale Primate, di cui tesseva un alto elogio, che merita di essere
ricordato anche per il perenne insegnamento che contiene circa la figura del
Buon Pastore e i suoi doveri: “Ben conosciamo i meriti di questo ottimo
Pastore; conosciamo la tenacia e l’illibatezza della sua fede, conosciamo la
sua fortezza apostolica nel tutelare l’integrità della dottrina cristiana e nel
rivendicare i sacri diritti della religione. Che se con petto impavido e forte
sentì il dovere di opporsi quando vide che la libertà della Chiesa veniva
sempre più limitata e in molte maniere coartata, e soprattutto quando vide
impedito con grave detrimento dei fedeli il magistero e ministero ecclesiastico
– il quale deve esercitarsi non solo nelle Chiese, ma anche all’aperto nelle
pubbliche manifestazioni di fede, e nelle scuole inferiori e superiori, con la
stampa, con pii pellegrinaggi ai santuari e con le associazioni cattoliche –
questo certamente non è per lui un motivo di accusa o di disonore, ma piuttosto
di alto elogio, giacché devesi ascrivere al suo ufficio di vigilante pastore”.
Insomma, il
“Buon Pastore” – secondo Pio XII – è un “vigilante Pastore”, che deve sapersi
dimostrare “impavido e forte” nella difesa dei “sacri diritti” della Chiesa e
della religione, che sono poi i sacri diritti di Dio sulle anime riscattate col
suo sangue.
Ammoniva
ancora, a conforto dei Vescovi e dei fedeli, “che la religione cristiana può
essere calunniata e combattuta, ma non può esser vinta!”, come dimostra – se mi
è permesso – questa stessa solenne commemorazione: il Card. Mindszenty fu
arrestato, torturato, condannato, imprigionato, ma non fu vinto (Devictus vincit).
Diversi
furono gli articoli che apparvero sull’Osservatore Romano prima e dopo il
processo; il 12 febbraio 1949 fu dichiarata la scomunica latae sententiae,
riservata speciali modo alla Sede Apostolica, insieme ad altre severe
pene canoniche, nei confronti di quanti, in qualunque modo, avessero
collaborato all’arresto del Primate, alla sua detenzione e alla sua condanna.
Il 14
febbraio 1949 Pio XII tenne un Concistoro straordinario in cui, di fronte al
Sacro Collegio, condannava l’ingiustizia commessa, denunciando gli abusi
perpetrati, resi manifesti da una serie di circostanze: “l’eccessiva e sospetta
rapidità della procedura, l’artificiosa e capziosa costruzione delle accuse, la
condizione fisica del Cardinale … la quale fece improvvisamente di un uomo fino
ad allora eccezionalmente energico … un essere debole e di mente vacillante”.
Si deve
ricordare che alle torture fisiche si associava anche, nonostante la grande
cautela del Cardinale, la somministrazione, attraverso il cibo, di droghe.
Per il Papa
una cosa sola risultava chiara: “e cioè che lo scopo principale di tutto il
giudizio è stato quello di sconvolgere la Chiesa Cattolica in Ungheria”.
Il 16
febbraio, al Corpo diplomatico, che si era riunito per porgere la solidarietà
del mondo civile al dolore del Papa per l’arresto e la condanna del Card.
Mindszenty, Pio XII lasciava una nota di speranza: “nel conflitto che oppone i
difensori di un regime totalitario ai campioni di una concezione dello Stato e
della società fondata sulla dignità e la libertà dell’uomo, voluta da Dio,
questa storica udienza riflette fedelmente il pensiero e le aspirazioni della
parte di gran lunga più vasta e più sana della umanità. Essa manifesta la reazione
della coscienza cristiana e anche semplicemente umana contro ogni oppressione
ed ogni arbitrio, contro ogni negazione della giustizia e ogni minaccia ai
diritti e ai sacri principii, la cui integrità è condizione necessaria per il
rispetto e per la salvaguardia degli imprescrittibili valori vitali”.
Credo che non
debba essere sottovalutata la lezione che ancora oggi ci viene dalla
compattezza allora dimostrata dal “mondo civile”, di cui l’augusto Pontefice si
fece interprete, a fronte della barbarie del totalitarismo.
Ma la più
splendida, magistrale arringa, Pio XII la fece nel Discorso al popolo romano
del 20 febbraio 1949, a quel popolo romano che mai mancava di accorrere al
richiamo di Colui che sentiva, perché così lo aveva sperimentato, come proprio
Padre, Pastore e Difensore.
Fu un vero
capolavoro, non inferiore alle declamazioni dei più grandi oratori di Roma
antica.
“La condanna
inflitta – così esordiva il Pontefice – fra la unanime riprovazione del mondo
civile, sulle rive del Danubio, ad un eminente Cardinale di Santa Romana
Chiesa, ha suscitato sulle rive del Tevere un grido di indignazione degno
dell’Urbe”.
Non abbiamo
più il tempo per soffermarci su questo straordinario discorso, ma non possiamo
non ricordare almeno quell’incalzante dialogo con la folla: “Ora è ben noto
quel che lo Stato totalitario e antireligioso esige ed attende da lei come
prezzo della sua tolleranza o del suo problematico riconoscimento. Esso, cioè
vorrebbe:
una Chiesa
che tace, quando dovrebbe parlare;
una Chiesa
che indebolisce la legge di Dio, adattandola al gusto dei voleri umani, quando
dovrebbe altamente proclamarla e difenderla;
una Chiesa
che si distacca dal fondamento inconcusso sul quale Cristo l’ha edificata, per
adagiarsi comodamente sulla mobile sabbia delle opinioni del giorno o per
abbandonarsi alla corrente che passa;
una Chiesa
che non resiste alla oppressione delle coscienze e non tutela i legittimi
diritti e le giuste libertà del popolo:
una Chiesa
che con indecorosa servilità rimane chiusa fra le quattro mura del tempio,
dimentica del divino mandato ricevuto da Cristo: Andate sui crocicchi delle
strade (Matth. 22,9); istruite tutte
le genti (Matth. 28,19),
Diletti figli
e figlie! Eredi spirituali di una innumerevole legione di confessori e di
martiri!
E’ questa la
Chiesa che voi venerate ed amate? Riconoscereste voi in una tale Chiesa i
lineamenti del volto della vostra Madre? Potete voi immaginarvi un Successore
del primo Pietro, che si pieghi a simili esigenze?
Il Papa ha le
promesse divine: pur nella sua umana debolezza, è invincibile e incrollabile;
annunziatore della verità e della giustizia, principio della unità della
Chiesa, la sua voce denunzia gli errori, le idolatrie, le superstizioni,
condanna le iniquità, fa amare la carità e le virtù”.
Attraverso
l’appassionata difesa del Card. Mindszenty, Papa Pacelli rivendicava la
soprannaturale grandezza della Chiesa, le eterne promesse di cui gode,
l’imprescrittibilità dei suoi diritti e dei suoi doveri, che ne delineano
l’irreformabile profilo, resistente al passare del tempo e delle mode, perché
aderente all’immagine datale dal Divin Fondatore.
5. Conclusioni
Sono note le
vicende successive: gli anni della prigionia, che andò nel tempo mitigandosi, la
trionfale liberazione nel 1956, che vide le manifestazioni di gioia non solo
dei cattolici, ma anche dei protestanti, insomma di tutto il popolo ungherese
che non aveva dimenticato il suo Principe Primate, il celebre radiomessaggio
alla nazione del 3 novembre 1956, l’occupazione sovietica, la fuga
nell’Ambasciata Americana, dove il Card. Mindszenty restò per quindici anni,
fino al 1971.
Il 28
settembre di quell’anno arrivava a Roma e, tra i primi gesti, celebrò una Messa
di ringraziamento sulla tomba di Pio XII (Memorie, p. 362).
Negli anni successivi,
si stabilì a Vienna e da lì iniziò a girare il mondo, per andare a visitare e
confortare gli Ungheresi nella diaspora, fino alla morte avvenuta a Vienna il 6
maggio 1975.
Quindici anni
dopo, le sue spoglie venivano traslate nella Cattedrale di Esztergom.
Nel 1994
prendeva avvio la causa di Beatificazione, che ora è nella sua fase romana.
Di questa
causa si è fatta promotrice e sostenitrice la Fondazione Mindszenty, di cui è
Presidente il padre di S.E. l’Ambasciatore, e di cui è Membro lo stesso Ambasciatore.
Da un punto
di vista processuale, vale la pena ricordare che già nel maggio del 1990 era
stata dichiarata la nullità del processo-farsa che il Card. Mindszenty aveva
dovuto subire, e nel 2012 si arrivò alla sua piena riabilitazione legale.
Occorre pur
ricordare che nel novembre del 1973 era cessato dalla carica di Arcivescovo di
Esztergom, e quindi di Primate d’Ungheria, non per propria volontà, ma per
disposizione della Santa Sede.
Non fu
comunque, lui vivente, nominato il successore.
Al riguardo,
sembra inutile indugiare nelle polemiche, che riguardano i cascami della storia.
Chiediamoci
piuttosto: di tutta questa vicenda che cosa resta?
Resta
l’esempio di un intrepido Pastore, che non ebbe timore di immolarsi per la
Chiesa e per la Patria attraverso un sacrificio continuo, che, sia pur con
diverse modulazioni, durò anni.
Restano le
parole di un santo Papa, che portò la tiara come una corona di spine, che lo
tormentò non solo negli anni della II guerra mondiale, ma anche in quelli, non
meno drammatici per il suo cuore di Padre universale, del dopoguerra.
Resta infine
l’invito alla speranza, tanto raccomandata da Pio XII, perché speranza fondata
sulle divine promesse, la speranza, che è certezza, che le più violente
tempeste non varranno a sommergere la Chiesa di Cristo.
Da qui,
questa sera, la nostra lode e il nostro ringraziamento al Signore della storia.
Avv. Comm. Emilio Artiglieri
Presidente Comitato Papa Pacelli – Associazione Pio
XII
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