Si è tenuto,
il pomeriggio del 17 febbraio, il secondo incontro del ciclo “Religioni e
diplomazia”, promosso dall’Associazione Carità Politica.
Sono
intervenuti S.E. Mons. Cyril Vasil' S.J., Segretario
della Congregazione per le Chiese Orientali, S.E. Sig.ra Irena
Vaisvlaite, Ambasciatore di Lituania presso la Santa Sede, S.E.
Sig. Pavel Vosalik, Ambasciatore della Repubblica Ceca presso la
Santa Sede, e S.E. Sig. Eduard Habsburg-Lothringen, Ambasciatore di Ungheria presso la Santa Sede.
Pubblichiamo
di seguito il testo dell’intervento di S.E. Eduard Habsburg-Lothringen
* * *
Vorrei cominciare con una citazione
attualissima: “…la trasformazione di alcuni paesi in società secolarizzate,
estranee ad ogni riferimento a Dio ed alla sua verità, costituisce una grave
minaccia per la libertà religiosa. È per noi fonte di inquietudine l’attuale
limitazione dei diritti dei cristiani, se non addirittura la loro
discriminazione, quando alcune forze politiche, guidate dall’ideologia di un
secolarismo tante volte assai aggressivo, cercano di spingerli ai margini della
vita pubblica.”
Naturalmente tutti voi avrete subito
riconosciuto che si tratta della dichiarazione comune di Papa Francesco e del
Patriarca di Mosca Kirill, firmata a Cuba il venerdì scorso – un evento che
come pochi altri rientra nel campo della religione e della diplomazia.
Mi sembra che i due capi religiosi
abbiano toccato una realtà interessante. Almeno nel cosiddetto „Occidente”
dell’Europa, ossia nei Paesi che non erano stati sottoposti ad un regime comunista
o socialista per una o due generazioni, mi sembra di osservare una tendenza
quasi radicale di spingere il fattore religioso ai margini della vita pubblica o,
addirittura, nella sfera privata. Come se l’interpretazione giusta della
libertà di religione fosse quella di una libertà dalla religione.
Il nostro continente che ha goduto per
due generazioni dell’assenza di guerre e di un benessere economico, sembra adesso
di voler liberarsi dalle catene spiacevoli del suo passato “costantiniano”. Solamente
rimuovendo la religione dalla vita pubblica, dice tale ragionamento, tutto sarà
a posto e l’uomo potrà, finalmente, promuovere il vero bene comune.
Invece, nei miei colloqui con personaggi
e colleghi dei cosiddetti “paesi dell’Est” (un termine del passato adesso riesumato
all’improvviso), ho riscontrato un approccio molto più “permissivo” per quanto
riguarda la presenza della religione nella sfera pubblica. Senza mai
abbandonare il principio fondamentale della società democratica, della
separazione tra Stato e Chiesa, in questi Paesi mi sembra di sentire più spesso
utilizzare la parola “Dio” nella vita pubblica.
Religione, famiglia e altri valori
che per oltre 1500 anni hanno caratterizzato l’Europa sembrano essere più
presenti da quelle nostre parti. Non penso di essere l’unico ad averlo osservato,
visto che pure un giornalista dello “Spiegel” qualche mese fa ha scritto che era
forse un errore ammettere quei “paesi dell’Est” al progetto dell’Europa unita,
vista la presenza, a suo avviso “troppo grande”, anche della religione nella
vita quotidiana, per cui i loro valori “non sono quelli dell’Europa attuale”.
Per passare ad un esempio concreto,
io adesso lavoro per un Governo composto per la maggior parte di ministri e
sottosegretari che sono personalmente uomini di fede, o almeno persone coscienti
della loro cultura cristiana. Durante i miei incontri con loro accade spesso
che la conversazione tocchi temi di fede o filosofiche, ma sempre con un
background cristiano.
L’anno
scorso, in occasione delle celebrazioni per i venticinque anni del
ristabilimento delle nostre relazioni diplomatiche con la Santa Sede il
ministro degli esteri ungherese Péter Szijjártó ha voluto dimostrare come i
principi che guidano la politica estera del nostro Paese siano quasi
naturalmente ispirati a valori religiosi o comunque morali.
Prima
di tutto, la politica estera dell’Ungheria, un Paese di grande tradizione
cristiana, parte dal presupposto di far parte di un’Europa le cui radici sono
cristiane. Per avere successo bisogna quindi trarre forza dai valori cristiani
che poi sono, per la gran parte, comuni ad altre religioni e alla democrazia
stessa.
L’Ungheria
sente il dovere della solidarietà con le comunità cristiane perseguitate nel
mondo, in questi tempi in modo speciale con quelle del Medio Oriente. Il
Governo ungherese è convinto perciò di dover dare il proprio, seppur limitato,
contributo – politico e fattivo – al ristabilimento delle condizioni di vita
umanamente degne in quei Paesi. Lo fa sia con mezzi militari (siamo presenti
con una missione nell’Iraq) che tramite assistenza umanitaria e aiuti allo
sviluppo. Questi aiuti il Governo ungherese, di norma, li affida alle
organizzazioni umanitarie e caritatevoli delle varie confessioni religiose,
anche perché le ritiene i più efficienti. (Conviene rammentare a tal proposito
che la Legge fondamentale dell’Ungheria contiene addirittura un obbligo per lo
Stato a collaborare con le chiese per il bene comune.)
Io non vorrei certo dire che tutti i
Paesi europei dovessero percorrere la stessa strada. Le storie e i “curricula nazionali” sono diversi, le
sensibilità attuali pure. Allo stesso tempo, l’esperienza e la situazione
attuale ci fanno comprendere l’importanza del dialogo con una realtà che il
dialogo religioso ed interreligioso lo pratica da secoli, vale a dire con la
Santa Sede, della quale ultimamente vediamo rafforzata la presenza nel campo
della mediazione internazionale.
Nel grande e valido progetto europeo,
al quale non vedo un’alternativa, ci deve essere spazio per delle visioni diverse,
e così anche per Paesi dove la presenza della fede nella sfera pubblica è più
sentita. Guardate: avendo sei bambini so benissimo che attorno al tavolo si riuniscono
sei progetti di vita diversi (otto se si contano pure i genitori). E questo è possibile,
poiché siamo una grande famiglia.
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