Il Card. Ravasi alla messa per Mindszenty (foto: I. Szabó) |
Ma
ogni liturgia comprende anche uno sguardo orizzontale. Gli occhi negli occhi. I
volti che s’incontrano. Non per nulla, questa parola, liturgia, come ben
sapete, significa in greco l’opera di un popolo, di un’assemblea. E per questo
motivo che io vorrei iniziare questa riflessione proprio da questo primo
sguardo. Uno sguardo che è anche segnato nella liturgia dei saluti.
All’inizio
vi ho salutato con il saluto stesso che Gesù fa ai suoi discepoli: la pace sia
con voi. Shalom – in ebraico. Ci si stringerà la mano. Ed è per questo che
vorrei iniziare salutandovi tutti voi che siete qui presenti che sono stati
ricordati all’inizio, a partire dei sacerdoti che sono qui con me, intorno a me
in questa meravigliosa chiesa romana, e tutta la comunità ungherese,
rappresentata qui anzitutto dalle sue autorità diplomatiche.
La
riflessione che faremo insieme a voi, sarà una riflessione familiare, perché
voi mi avete chiamato a celebrare la vostra memoria tra l’altro attestata anche
da una presenza di un coro, un’orchestra che viene dalla vostra terra, una
terra, che anche io ho visitato, la terra che è cara anche a Mons. Acerbi, che
là ha vissuto come nunzio per sette anni.
Io
vorrei prima di tutto ricordare con questo sguardo familiare la figura che è
qui idealmente, spiritualmente presente: la figura del Cardinale Mindszenty. E lo
faccio attraverso le parole di colui che ha avuto con lui un rapporto stretto,
difficile anche, cioè con la memoria che fa di lui Paolo VI. E come sapete, aveva
dovuto chiedergli quel sacrificio: “Ti scrivo davanti al crocifisso che un
giorno giudicherà me e Lei” - chiedendogli le dimissioni da Arcivescovo di
Esztergom. Ecco le parole di Paolo VI, giunte dopo, pochi giorni dopo la morte
del Cardinale Mindszenty: “Singolare figura di sacerdote e di pastore, il
Cardinale Mindszenty! Ardente nella fede, fiero nei sentimenti, irremovibile in
ciò che gli appariva dovere e diritto. La Provvidenza lo pose a vivere, fra i protagonisti,
uno dei periodi più difficili e più complessi dell’esistenza millenaria della
Chiesa nel suo nobile Paese. Fu, e continuerà certamente ad essere, segno di
contraddizione, come fu oggetto di venerazione e di attacchi violenti, di un
trattamento che colpì di addolorato stupore la pubblica opinione e in
particolare il mondo cattolico e che non risparmiò la sua persona e la sua
libertà”.
Così parlava il 7 maggio 1975
Paolo VI. Io ricordo ancora – da studente, ma già sacerdote qui a Roma – l’arrivo
a Roma del Cardinale Mindszenty, accolto da Paolo VI, e la celebrazione che
insieme hanno fatto nella Cappella Sistina. Poi successivamente il Cardinale,
come sapete, si ritirerà dopo un mese o due a Vienna. Questa è la memoria dello
sguardo orizzontale cioè la memoria che facciamo insieme di un evento, che è
soprattutto vostro, a cui avete voluto invitarmi.
E ora passiamo al secondo sguardo, quello che è rivolto verso l’alto, verso la Parola di Dio che ora abbiamo ascoltato. Ed io vorrei fare con voi due brevi riflessioni, scegliendo quasi due fili, due teli che scendono da questa Parola di Dio.
Il primo è dall’interno di quel
racconto nella prima lettura degli Atti degli Apostoli (Att 8,27-39). Voi
sapete che gli Atti degli Apostoli sono il ritratto molteplice della chiesa
delle origini. E nell’interno c’è anche questa strada, la strada che va da
Gerusalemme ad Asdod un centro della Terra Santa meridionale. E su questa
strada cammina questo diplomatico, alto funzionario della regina di Etiopia. Questo
personaggio è uno dei cosiddetti timorati di Dio negli Atti degli Apostoli.
Cioè chi sente il desiderio di entrare quasi nella comunità dei fedeli
dell’Alleanza. Ed è per questo che sta studiando, leggendo un rotolo della
Bibbia. È una pagina celebre del profeta Isaia, il cosiddetto quarto canto del Servo
del Signore. Una pagina che è stata letta in chiave messianica soprattutto dai
cristiani che lì ha visto il profilo di Cristo. Perché il Messia, leggendo
quella pagina, non è il Messia trionfatore, il Messia che entra in Gerusalemme
a cavallo, come un imperatore, come un liberatore politico. Il Messia del canto
di Isaia è invece una persona sofferente, ferita, una persona si dice a cui si
ha vergogna quasi a guardare il volto, tanto fa impressione. Ecco le righe che
sta leggendo questo funzionario eunuco della vicina Etiopia. Isaia dice: come
una pecora questo servo del Signore fu condotta al macello, come un agnellino
senza voce a chi lo tosa. Così egli non aprì la sua bocca.
E qui c’è la frase che vorrei
ricordare ed una frase che idealmente si può applicare alla figura del
Cardinale Mindszenty: nella sua umiliazione il giudizio, il giudizio giusto, gli
è stato negato. Ricordo ancora ero molto giovane, ragazzo, quelle immagini del
processo che è stato aperto contro di lui.
Ed ecco il tema che lascio a
voi, il tema della sofferenza. La sofferenza nella società contemporanea è
segno di maledizione. È segno di rigetto. Tanto è vero che quando il dolore ci
attraversa, si cerca in tutti i modi di uscirne. Nella Bibbia invece è segno
non solo di purificazione ma di salvezza per le anime.
È una sorta di espiazione che
viene fatta per il male del mondo per cui non sappiamo quanto male nostro e del
mondo viene cancellato proprio da questi giusti che ancora oggi sulla faccia
della terra sono perseguitati, umiliati – sono miseri, sono profughi, sono
infelici, gli emarginati e gli ultimi della terra – che non hanno un giudizio
giusto che sono nell’umiliazione, come dice il profeta. Loro sono in realtà
coloro su quali si posa lo sguardo di Dio, anzi sono la presenza del Messia. Ricordate
Gesù in quel discorso che c’è nel Vangelo di Matteo, dove è il Volto di Cristo
oggi (Mt 25)? Il Volto che abbiamo perso ormai, non lo sappiamo com’era, i Vangeli
non lo descrivono. Il Volto di Cristo è nell’affamato, l’assetato, il carcerato,
il malato, l’ultimo.
La seconda riflessione sempre
viene dall’alto, dalla Parola di Dio, in questo caso dal Vangelo che abbiamo
ascoltato (Gv 6,44-51). Ed è quel brano, il frammento che abbiamo ascoltato in
quel grande discorso che Gesù tiene in una sinagoga, la sinagoga di Cafarnao. I
pellegrini vanno ancora oggi e leggono questo brano a Cafarnao nello spazio di
una sinagoga che è posteriore, ma che è lo stesso spazio dove Gesù aveva
parlato.
E Gesù, nel brano che abbiamo ascoltato,
introduce un elemento che è all’antipodo rispetto quello che abbiamo appena
descritto. È un orizzonte di luce, oltre la frontiera ultima della vita, è
l’orizzonte della Resurrezione. Per questo si legge nel periodo pasquale. Per
sette volte, sette volte nel brano che è stato letto s’introduce questo tema: chi
mangia di me, mio pane lo resusciterò nell’ultimo giorno; chi crede in me, ha
la vita eterna; io sono il pane della vita, chi ne mangia, non muore; io sono
il pane vivo, chi mangia di questo pane, vivrà in eterno; il pane che io do, è
per la vita per molti. Sette volte il tema della vita del futuro della
Resurrezione della gloria.
E anche questo brano idealmente
si attacca a questa celebrazione, a questa memoria del Card. Mindszenty. Infatti,
si ricordava all’inizio, la via della beatificazione del Servo di Dio: cioè
l’essere, dopo la sofferenza, nella gloria, nella luce, nella pace. È il
principio che deve reggere anche la nostra vita, quando siamo nella tenebra,
nell’oscurità, il principio della speranza, questa virtù che, come diceva un
poeta francese che a questa speranza dedicava un intera poema, è la speranza
delle tre virtù teologali è la sorella più piccola. Le altre virtù – la fede e
l’amore, la carità – sono sorelle grandiose. La speranza, però, come i bambini fanno
con i loro genitori, tira per mano e fa andare avanti la fede e la carità. Ecco
la speranza come spinta, stimolo, che ci fa
andare oltre, verso la luce.
Vorrei infine lasciare la
parola a due persone che idealmente parlano a voi ora, qui. La prima è la voce
di San Giovanni Paolo II nella cripta della Cattedrale di Esztergom, dove è
sepolto il Cardinale Mindszenty, il 16 agosto del 1991. Davanti alla tomba egli
pronunciò queste parole:
"Proprio
all’inizio della mia visita in Ungheria, desidero rendere un cordiale omaggio
alla cara e venerata memoria del compianto Cardinale Mindszenty che ha lasciato
una luminosa testimonianza di fedeltà a Cristo e alla Chiesa e di amore alla
patria. Il suo nome e il suo ricordo rimarranno sempre in benedizione”.
Il suo nome e il suo ricordo
sono in benedizione oggi.
E naturalmente, per l’ultimo, anche
se non nella sua lingua, la sua voce, quella del Cardinale stesso, nelle sue
Memorie:
“Nonostante tutte queste
vicende non mi sento amareggiato. Cerco, anzi, di continuare, sostenuto dalla
benedizione di nostro Signore. Continuare la missione della salvezza a favore
delle anime degli ungheresi dispersi in tutto il mondo, con quello stesso
spirito che mi aveva mosso a lavorare sempre in tutto il territorio della mia
patria.”
(Registrazione e trascrizione del testo a cura di Márta Vertse)
Nessun commento:
Posta un commento